I mondiali di atletica di Londra sono stati interpretati da molti come una specie di “ricerca dell’erede al trono”. Detta così, essendosi svolti in un paese dove c’è la monarchia e un reale (in ogni senso) erede al trono che aspetta di succedere da diversi decenni, fa pure un po’ sorridere.
Il fatto è che Usain Bolt, il sovrano che a Londra ha abdicato, lascia (anche dal punto di vista mediatico) l’impressione di un vuoto simile a quello che ha lasciato Obama alla fine del suo mandato (lì sembra oltretutto che la successione sia andata, come si dice, “non benissimo”).
Partiamo quindi proprio dall’uscita di scena del giamaicano. Non è stata come tutti speravamo, non ci sono state le ultime vittorie ma umanissimi problemi, la sconfitta sui 100 metri (ad opera del perfetto cattivo Gatlin, poi) e addirittura l’infortunio nella staffetta. Era davvero ora di andare, dunque.
Come Bolt, che resta uno dei più incredibili atleti mai visti, e il migliore velocista di sempre, altri fuoriclasse sono vicini alla fine della carriera, e anche per loro a Londra è “suonata la campana”.
Ha perso una finale il fondista Mo Farah, tra l’altro “perculato” dal vincitore dei 5000, l’etiope Muktar Edris che condividendo la stessa iniziale del nome ha esultato con le braccia a emme proprio come Mo.
Non è andata a podio e anzi è arrivata ultima in finale nell’alto la spagnola Ruth Beitia, a 38 anni non più belva da medaglia: avremmo celebrato molto di più la carriera della spagnola se non fosse brutta e sfortunatamente rivale della ballerina dagli occhi magnetici Vlasic, mi sa.
Sono stati mondiali bellissimi, con notevoli sorprese fino all’ultima gara, quando gli staffettisti americani, da sempre dominatori della specialità, sono stati battuti nella 4×400 da Trinidad e Tobago.
I 200 (la gara che probabilmente Bolt avrebbe vinto, se l’avesse corsa) sono andati a un turco di origine uzbeka, Ramil Guliyev, che nessuno pronosticava vincente. Il bronzo dell’alto l’ha vinto un siriano, Majededdin Ghazal, sfuggito (davvero) alla guerra del suo paese, i 400 ostacoli un norvegese, Karsten Warholm, così poco conosciuto che al momento della gara aveva su twitter circa 800 follower (Bolt 4 milioni 840 mila, per dire).
Lo stupore di Warholm appena tagliato il traguardo è una delle immagini belle di Londra che ci resteranno.
Come la gioia assoluta di Yulimar Rojas, giovanissima venezuelana, vincitrice di una magnifica gara del triplo dopo un duello sudamericano con la campionessa olimpica, la colombiana Ibargüen, la regina del sorriso di questi giochi a pari merito con la piccolissima ivoriana Ta Lou, che si è portata a casa due argenti nella velocità, e sui 100 poteva essere oro se avesse controbattuto il colpo di reni della Bowie.
Cosi pure ci resterà l’immagine della contrattura che ha fermato a pochi metri dal traguardo dei 400 donne la Shaunae Miller, togliendole la vittoria dopo una gara in cui lei e la Felix hanno corso la prima metà del giro di pista come se si fossero dimenticate che incubo sono i quattrocento. L’americana Felix ha tra l’altro portato a 16 il numero di medaglie vinte in otto mondiali disputati, altra grande atleta molto poco celebrata Allyson.
Due incisi ora:
– con l’aumento dei controlli agli atleti, sono un po’ diminuite le prestazioni (niente record galattici) e si sono allungati i tempi di recupero: lo ha constatato chi ha tentato l’accoppiata 400-200, la già citata Miller e uno dei possibili eredi, Van Niekerk (di cui parleremo tra poco). Sarà magari un male per “Nike & co.” che devono sparare spot sui personaggi e sulle imprese, ma è un bene per lo spettacolo e quindi per quelli che ancora guardano lo sport per divertirsi;
– l’atletica italiana ha fatto schifo, portiamo a casa il bronzo della Palmisano nella marcia, che è peraltro un nobilissimo mondo a parte. I nostri sono arrivati alla grande gara per dare il peggio di sé, specchio del paese in cui viviamo. Merita due parole in più (ma giusto due) il saltatore Tamberi, fuori dalla finale con la stessa misura di 2,29 che ha poi superato il terzo, il già citato siriano Ghazal, e reduce da un infortunio gravissimo. Avrebbe insomma tutte le giustificazioni di questo mondo Tamberi, se la smettesse di atteggiarsi da personaggio di un programma della De Filippi, cosa che magari potremo sopportare quando (finalmente) avrà anche vinto qualche competizione importante (o anche no, vedi alla voce Federica Pellegrini).
L’erede al trono (che non c’è), dicevamo.
Tra i “papabili” il più quotato era il giovane sudafricano Wayde Van Niekerk. Ci si aspettava che potesse scendere sotto i 43” nei 400 (una vecchia battuta dice che è possibile, purché si sappia poi dove seppellire chi ce l’ha fatta: il giro di pista come detto è un incubo), e che facesse doppietta 400-200. Invece ha vinto i 400 faticando parecchio, e non si è ripreso per il mezzo giro di pista, in cui ha vinto “solo” l’argento, con un tempo modesto in una delle poche gare mediocri di tutti i mondiali.
Si è eliminato da solo il canadese De Grasse, che poteva sfidare Bolt nello sprint e invece ha dato forfait per infortunio.
Forse ad andare più vicino al ruolo di erede è stata una ragazzona olandese che, come Bolt, sovrasta fisicamente quasi tutte le avversarie, e che ha il nome della ninfa al cui mito si deve peraltro l’uso della corona d’alloro per premiare i vincitori nelle antiche competizioni sportive.
Dafne Schippers, bronzo nei 100 che non sono la sua specialità naturale, dato che viene dall’eptathlon e ha una struttura molto robusta (è vicina al metro e ottanta e pesa una settantina di chili), ha vinto i 200 battendo proprio la piccola Ta Lou e la Shaunae Miller, impressionando per la bellezza della corsa, e riportando la velocità bianca sul podio più alto dopo tanto dominio statunitense e caraibico. Dafne è probabilmente l’unica ad avere, oltre il talento, anche il physique-du-rol per diventare regina, anche se il suo regno sarebbe di certo all’insegna della sobrietà, e da lei non dobbiamo aspettarci l’invenzione di nuovi modi di esultare o serate mondane documentate sull’instagram.