“In una valletta del monte incontrammo un vecchio pastore che tentò in mille modi di dissuaderci dal salire, raccontandoci che anche lui, cinquant’anni prima, preso dal nostro stesso entusiasmo giovanile, era salito fino sulla vetta, ma che non ne aveva riportato che delusione e fatica, il corpo e le vesti lacerati dai sassi e dai pruni, e che non aveva mai sentito dire che altri, prima o dopo di lui, avesse ripetuto il tentativo.”
Cinquant’anni prima, meglio: cinquant’anni fa nei giorni scorsi, sullo stesso Monte Ventoso salito da Petrarca, in un’ascesa la cui memoria ci rimarrà per sempre grazie al resoconto inviato al frate agostiniano Dionigi di Borgo San Sepolcro, morì Tommy Simpson (e la citazione che leggete sopra può purtroppo applicarsi, e molto in peggio, a quel che successe quel giorno all’inglese).
Devo dire che mi ha sorpreso che l’anniversario sia passato sostanzialmente nel silenzio, nonostante fossero i giorni in cui si correva il Tour de France (che in questa edizione sul Mont Ventoux non è salito).
La mole del monte, infatti, tutta sassi, è assai scoscesa e quasi inaccessibile, ma ben disse il poeta che «l’ostinata fatica vince ogni cosa». (sempre il Petrarca)
Tom Simpson è stato il primo inglese forte in uno sport all’epoca dominato da italiani (tanto che, come noto, i francesi “si incazzano”) e belgi. Allora si pensava che i britannici non fossero portati per il ciclismo perché hanno un territorio privo di salite dure su cui allenarsi.
Nato nel nord in una zona di minatori (la città più grande lì vicino è Sunderland), formatosi col ciclismo su pista specialità inseguimento, “coraggioso e spiritoso, capace di tutto” (lo ricorda Mura), l’inglese riuscì anche a essere campione del mondo, e a vincere le due nostre classiche in linea, la Sanremo nel ’64 e il Lombardia nello stesso 1965 del titolo iridato, conquistato a San Sebastian nei paesi baschi (un altro posto storico del pedale) battendo allo sprint dopo una fuga di 40 chilometri Rudi Altig, che il titolo lo vincerà l’anno dopo in un’edizione celebre perché i primi tre rifiutarono il test antidoping.
Allora peraltro il doping non era combattuto, e come sappiamo non lo sarà con durezza neanche dopo la prima morte per doping di un ciclista in diretta tivù, dopo quello zig zag angosciante e quella volontà di stare in sella a ogni costo su una salita durissima, quel terribile Mont Ventoux, il colle calvo desolato e battuto dal sole e dal mistral che ricorda l’ansia dei paesaggi lunari.
Stroncato dalla fatica Tommy Simpson, dal caldo (“C’erano 45 gradi all’ombra e i negozi aprivano alle cinque di sera, e i corridori salivano tra i sassi nel primo dopopranzo”, di nuovo Mura) ma soprattutto, come si immaginò da subito e come le analisi confermarono, dal mix di brandy e metilanfetamine.
Successe nella tredicesima tappa, partita da Marsiglia ai piedi della grande chiesa di Nostra Signora della Guardia, ma lei pure non poté niente la vigilia del 14 luglio ‘67 (si celebra la festa nazionale durante il Tour, e di solito la tappa – ça va sans dire – la vince un francese).
Faceva un caldo terribile e il campione inglese, stordito dalle sostanze, già indisposto, semplicemente non si rese conto di avere superato il proprio limite fisico, tanto che le sue ultime parole furono per chiedere di rimetterlo in sella (la biografia che lo racconta si intitola infatti ‘Put me back on my bike’) nonostante fosse chiaro che non era più in grado di andare avanti, e morì praticamente avvinghiato alla bici.
Il giorno dopo, il 14, si andò da Carpentras a Sète, e per una volta nonostante la fête nationale fecero vincere un britannico, Barry Hoban, che tagliò il traguardo piangendo e che due anni dopo sposerà proprio la vedova di Tommy.
(Se vogliamo dirla tutta prima di Simpson ci fu un pioniere, ovvero Brian Robinson, primo britannico a finire il Tour, ventinovesimo nel ’55 e a vincere una tappa, nel ’58 sul traguardo di Brest, il che non cambia il ricordo di Simpson come primo, e per molti anni unico inglese forte sulle due ruote).
Ogni qualvolta mi è capitato di avvicinare il Ventoux o di sentirmi chiedere del Ventoux ho sempre pensato o risposto che di una montagna personificata o di natura antropomorfica si tratta. (Mario Fossati, La Repubblica, 1987. Mario Fossati ce lo siamo dimenticato o quasi ma è stato un grande, anzi un grandissimo giornalista sportivo)
Anche quest’anno il Tour de France l’ha vinto (per la quarta volta, e la terza consecutiva) un britannico, Chris Froome, peraltro nato a Nairobi e che ha iniziato la carriera in Sud Africa.
Lo dico subito, a scanso di equivoci. A me lui non piace come atleta, non mi piace che basi tutta la sua stagione e la sua carriera praticamente solo sulla vittoria alla “grand boucle” (devo citare l’altro che lo fece prima di lui, o ricordate tutti com’è andata con Lance Armstrong?), non mi piace il team per cui corre, che fa al ciclismo gli stessi danni che al futbòl han fatto i petrodollari trasformando in corazzate milionarie squadre dal passato modesto come il City o il Psg, e peggio ancora la casa austriaca di bevande energetiche, quella che alle squadre cambia perfino nome, colore di maglia…
Il ciclismo e la Gran Bretagna invece nel frattempo hanno preso ad andare parecchio d’accordo, ma ne parleremo nella seconda parte di questo racconto.
Intanto dico la mia su uno degli “eventi” della carriera di Froome, proprio sul Mont Ventoux al Tour 2016, quando dopo un tamponamento a tre (più moto) lui, rotta la bici, proseguì correndo a piedi come un invasato (spero di suo non per eventuali sostanze assunte): ecco, come trovo atrocemente drammatiche, ogni volta che le rivedo, le immagini degli ultimi metri di vita di Simpson, così trovo ridicola, deprimente e antisportiva (anche per il successivo regalo della giuria che gli abbuonò il distacco accumulato nell’incidente) quella corsa a piedi di Froome durante una gara di biciclette, e Chris potrà vincere anche lui sette Tour come Armstrong ma non vincerà mai il mio cuore di appassionato dello sport.
(fine prima parte)