Jeff Bezos aveva appena 35 anni ed era pressoché sconosciuto quando, nel 1999, la rivista Time lo incoronò “Uomo dell’anno”. “L’e-commerce sta cambiando il modo in cui facciamo gli acquisti”, spiegò il settimanale americano, riferendosi alla Amazon.com, la società fondata da Bezos cinque anni prima a Seattle e che era già diventata leader nelle vendite online di libri.
Da allora Amazon non ha cessato di espandersi negli Stati Uniti e nel mondo; né di tracimare in altri settori merceologici, come l’abbigliamento o i giocattoli; né di lanciarsi nei prodotti dell’elettronica; né di mettersi in concorrenza con colossi come WalMart e Apple; né di far aumentare le sue quotazioni al Nasdaq, arricchendo Bezos, il cui patrimonio è ora di 21,4 miliardi di dollari. E di fronte a una crescita così impetuosa, Time è tornata sull’argomento chiedendosi: “Amazon conquisterà forse il mondo?”.
La domanda ha un aspetto provocatorio, ma è più che legittima. La multinazionale di Seattle ha 48 miliardi di fatturato (2011) che la pone al quindicesimo posto nella graduatoria dei gruppi commerciali d’oltreoceano e, con una capitalizzazione di borsa che sfiora i 100 miliardi di dollari, è al 56mo posto nella hit parade di Wall Street. Ma più che nei numeri, la “conquista” di cui parla Time è nel modo in cui Amazon si sta integrando nella vita quotidiana degli americani.
Il giro d’affari degli acquisti sul web ha già raggiunto negli Stati Uniti i 200 miliardi di dollari, secondo le stime di Forrestal Research, cioè il 7 per cento del totale del commercio al dettaglio. E la forza di Bezos non cessa di lievitare, diventando “walmart-esca”, cioè simile a quella della più grande catena mondiale di ipermercati fondata da Sam Walton, quella dove si trova “dall’ago all’elefante” come diceva una vecchia pubblicità.
Amazon è nata sull’onda della new economy e resta una società hi-tech. I suoi “cugini” si chiamano Apple, Facebook, Google. E come gli altri tre, ha cercato di approfittare della ultima recessione per rafforzarsi e reinventarsi: con l’unica differenza che, pur cavalcando le nuove tecnologie, opera nel settore più vecchio e tradizionale, cioè il commercio, collegando chi produce le cose con chi le vuole avere. Il legame con la “fisicità” rappresenta un punto di forza di Bezos. E potrebbe diventarlo ancor più se il gruppo di Seattle, come ha anticipato il Financial Times la settimana scorsa, dovesse inaugurare un servizio di consegna immediata a domicilio degli acquisti online: bruciando i tempi grazie alla struttura capillare dei suoi magazzini super-computerizzati e in concorrenza con le strutture normali di vendita al dettaglio.
Il chief executive e maggior azionista di Amazon è irrefrenabile. Da quando lasciò Wall Street, dove aveva cominciato a lavorare dopo gli studi a Princeton, per fondare Amazon (con un senso di rimpianto per non essere stato il primo a credere nella rivoluzione del web), Bezos ha stupito tutti per la raffica di progetti innovativi. Alcuni sono finiti in un flop: come il tentativo nel 1999 di avviare una casa d’aste online in concorrenza con eBay. Ma la maggioranza delle iniziative è stata accolta con entusiasmo dai consumatori, oltre che dagli investitori, contribuendo al boom del gruppo.
Finora i passaggi-chiave nella storia aziendale sono stati cinque: 1) l’allargamento dei settori merceologici al di là dei libri; 2) la rapida internazionalizzazione delle attività, con l’apertura di un quartiere generale europeo a Lussemburgo e di attività nei maggiori paesi industrializzati; 3) l’introduzione del Kindle per la lettura (e la vendita) di libri sotto forma digitale; 4) l’aggiunta della “nuvola”, cioè il suo posizionamento nel “cloud computing”; 5) l’ingresso in grande stile nel settore dell’hardware elettronico.
Il primo di questi snodi era la logica conseguenza del successo ottenuto nei libri. In pochi anni Bezos era riuscito a creare la “più grande libreria del mondo” e non era difficile utilizzare lo stesso modello gestionale per altri prodotti. Di qui gli accordi con fornitori esterni, che ora superano il milione e contribuiscono al 40 per cento del fatturato del gruppo. Amazon mette loro a disposizione il suo sito (visitato mensilmente da 65milioni di americani), fa da tramite alle vendite e incassa una commissione del 7 per cento, che comprende l’assicurazione contro le frodi e i costi del pagamento con carta di credito. Un sistema, questo, che ha trasformato Amazon nel maggiore gruppo di commercio online del pianeta, padrone già del 25% di tutto l’e-commerce americano.
Poi è venuto il Kindle. Non era una scommessa facile: perché mai il leader delle vendite di libri di carta avrebbe dovuto puntare al libro digitale? Non c’era forse il rischio di una flessione del fatturato “normale” e al tempo stesso di aprire il fianco alla concorrenza? Bezos, che ha sempre avuto il gusto della sfida (e che ora spende molti dei suoi milioni in avventure per la conquista dello spazio), ha scommesso sul cambiamento dei modi di lettura. E ha vinto: introdotto nel 2007, il Kindle ha permesso ad Amazon di arrivare in meno di tre anni a vendere più volumi online che cartacei, contribuendo al tempo stesso a una trasformazione epocale della società.
Dopo il libro elettronico, Bezos ha puntato sul Kindle Fire, un piccolo tablet in concorrenza con l’i-Pad di Steve Jobs. Anche qui ha avuto successo: non solo per il prodotto in sé, ma anche per la sinergia creata tra l’hardware Amazon e le sue vendite online. Un collegamento, questo, destinato ad accelerarsi con il prossimo smartphone che sarà prodotto, pare, dalla Foxxconn cinese per la casa di Seattle. La quale userà così il suo marchio per entrare in un mercato dominato finora da Apple, Samsung e Google, e per “veicolare” gli acquisti dei suoi utenti-consumatori.
Bezos ha sempre avuto l’appoggio di Wall Street nella sua corsa verso l’egemonia nell’e-commerce. Sbarcata nel 1997 al Nasdaq, Amazon ha una quotazione che si aggira oggi sui 220 dollari (rispetto a 1,5 dollari di 15 anni fa). Il rapporto prezzo/ utile è di 180, addirittura più alto di Apple o Facebook. Come si spiega? Gli investitori ritengono che il gruppo abbia ampie possibilità di crescita. Nonostante un prezzo così caro, la Nomura invita ad esempio i suoi clienti a comprare i titoli del gruppo. Ma c’è anche chi, come Robert Weinstein su “The-Street.com”, lancia dei segnali d’allarme: ricordando come il Congresso stia tentando di assoggettare Amazon alle tasse di consumo che per ora ha scansato grazie a una sentenza della corte suprema, e intanto notando che Bezos ha sempre realizzato utili troppo bassi rispetto all’ampiezza del fatturato e alle sue ambizioni.
Amazon inaugura i primi store fisici, Walmart risponde alla sfida con investimenti nell’e-commerce. A tremare, in questa morsa, è il resto del retail. E non solo Usa.
COSA RESTA DEL RETAIL USA
Stretto nella morsa di questa corsa a due, non è un caso che il retail americano viva una fase di forte sofferenza, con il susseguirsi di casi di bancarotta (si pensi a gruppi come Aéropostale, Pacific Sunwear of California, Sports Authority e American Apparel) e di piani di ristrutturazione aziendale (emblematici i casi di Sears e Macy’s). Significativo, a questo proposito, quanto rilevato dalla Global Retail Marketing Association che, lo scorso febbraio, ha chiesto a oltre 100 manager americani quali fossero i fattori debilitanti e le principali minacce per il settore. Oltre alle classiche indicazioni sugli errori di strategia, il sondaggio riflette la paura verso ‘Walmazon’. Gli intervistati indicano infatti Amazon (nel 16,7% dei casi) e Walmart (per il 7,14 %), come competitor ‘tiranni’ pronti a spartirsi il mercato tra loro, soprattutto dopo l’acquisizione, da parte del gruppo guidato da Doug McMillon, di Jet.com.
AMAZON E I PRIMI NEGOZI FISICI
Primo e-tailer a livello mondiale con una fetta di mercato di oltre il 20%, Amazon è anche il top internet retailer d’America con una percentuale del 33 per cento. Secondo gli analisti di Euromonitor International, questa incidenza potrebbe salire al 50% entro il 2021. A livello brick-and-mortar la società guidata da Jeff Bezos conta oggi alcune librerie fisiche a Portland, San Diego e Seattle e, sempre nella sua città d’origine, ha visto il debutto del format Amazon Go, il “supermercato senza casse” e con pagamento tramite app. Secondo quanto riferito da Bloomberg, inoltre, lo scorso autunno il gruppo sarebbe stato vicino al takeover di Whole Foods Market, retailer di prodotti alimentari, pronto a beneficiare dello store network esistente e della sua base di consumatori. Con una capitalizzazione di mercato di 10,8 miliardi di dollari (circa 9,6 miliardi di euro), Whole Foods si è poi rivelato un deal troppo oneroso per Amazon che ha tuttavia confermato la volontà di rafforzare la sua presenza nel segmento dei prodotti freschi. “Jeff Bezos – riporta Bloomberg – ha realizzato di non poter vincere la sfida del settore alimentare solo con un sito internet, dei magazzini e dei mezzi per la consegna. Il più grande e-tailer del mondo ha capito come gli store fisici giochino un ruolo chiave in questo campo”.
Homepage di Walmart.com e lo store Amazon Go
WAL-MART RILANCIA CON JET.COM
Lo sa bene Mark Lore, fondatore del portale generalista Jet.com e oggi chief executive officer di Walmart.com, per il quale la rete di 4.700 punti vendita fisici di Walmart rappresenta la controparte strategica ideale dell’ampliata offerta e-commerce del gruppo. Il più grande rivenditore al dettaglio del mondo ha archiviato i primi tre mesi dell’anno con ricavi in progressione dell’1,4% a 117,5 miliardi di dollari. A caratterizzare in modo marcato il periodo, è stato però il risultato ‘virtuale’, con l’e-commerce che ha messo a segno un +63%, tasso di crescita più alto degli ultimi 5 anni, con un incremento organico realizzato per lo più attraverso Walmart.com. A spingere il traffico e le vendite, ha spiegato il gruppo, sono state l’introduzione di spedizioni gratuite entro due giorni per acquisti uguali o superiori a 35 dollari e gli ulteriori sconti per quanti ordinano online, ma ritirano la merce negli store. Il margine di vantaggio di Amazon resta chiaro, considerati i 24 miliardi di dollari di vendite online nel primo trimestre contro i circa 4 miliardi attribuibili al web di Walmart. “L’accelerazione di Walmart – ha però spiegato Charlie O’Shea, analista di Moody’s, al Financial Times – amplierà il gap tra il gruppo e i suoi competitor brick-and-mortar. Guardando al panorama retail, con insegne che vivono una fase di difficoltà su più fronti, crediamo che Walmart continuerà a elevare il livello di competitività”.
Anche da questa parte del pianeta, il tema comincia a essere considerato cruciale, al punto che Federazione moda Italia ha lanciato un progetto per il retail Phygital. L’approfondimento completo è sviluppato nel Dossier pubblicato sul numero 8 di Pambianco Magazine in edicola in questo mese di giugno.
Mentre è ancora un negozio in linea principalmente, Amazon non sta girando la schiena sugli stabilimenti fisici. Dopo aver aperto l’anno scorso a Seattle il suo primo negozio di mattoni e malta, l’amministratore delegato Jeff Bezos ha confermato all’assemblea degli azionisti di Amazon che altri negozi stanno arrivando.
“Noi cercheremo sicuramente di aprire negozi aggiuntivi: quanti non sappiamo ancora”, ha detto Bezos durante la riunione secondo un rapporto del Wall Street Journal . “In questi primi giorni, è tutto sull’apprendimento piuttosto che sul tentativo di Guadagnare un sacco di ricavi “.
Attualmente la posizione di Amazon di Seattle è per lo più una libreria e la società sta già costruendo un’altra località a San Diego. Amazon ha anche costruito piccoli chioschi in città come San Francisco e Sacramento che vendono prodotti Amazon come Kindle e Fire compresse. Nel mese di febbraio, CEO di General Growth Properties, Inc. Sandeep Mathrani ha dichiarato in una chiamata ai guadagni che avrebbe indovinato che altri 400 siti Amazon Books avrebbero aperto in futuro. Poi è tornato indietro su quella dichiarazione.
Secondo il rapporto, Bezos ha anche intenzione di aggiungere altre caratteristiche all’account di Amazon di $ 99 per anno. Non sappiamo esattamente quali sono le nuove funzionalità, ma Bezos vuole che il Primo abbia sufficienti benefici che la gente ritiene siano “irresponsabili” se non sono abbonati. L’aggiunta più recente ai Membri Prime è l’accesso ai prossimi mercati alimentari di etichetta privata di Amazon, annunciata da questa settimana. Eppure, l’affermazione di Bezos è in grassetto, per cui probabilmente vedremo numerosi altri vantaggi per l’appartenenza al Primo.
Nielsen, attraverso il Connected Commerce Survey, ha studiato questa evoluzione, con l’obiettivo di individuare i motivi e le modalità di approccio all’e-commerce nel mondo. Lo ha fatto intervistando un campione di 13.000 individui in 24 nazioni diverse.
Dall’indagine emerge che fra gli italiani fruitori del web il 12% ha l’obiettivo esclusivo di acquisire informazioni sul prodotto, mentre il restante 88% anche quello di fare acquisti, dato inferiore alla media UE (95%), trainata da Francia (96%), Spagna (96%) e Gran Bretagna (99%). E’ interessante notare invece come i consumatori Italiani siano quelli che maggiormente acquistano prodotti oltreconfine superando in modo significativo la media europea (65%); sono infatti il 79% ad affermare di aver acquistato prodotti al di fuori delle mura domestiche negli ultimi 6 mesi.
Nello stesso tempo, lo studio condotto da Nielsen ha sondato le motivazioni e le barriere che spingono e frenano i consumatori italiani a utilizzare il canale on line per l’acquisto di prodotti freschi. Fra i fattori stimolanti emergono fra tutti la ricerca dell’affare migliore (42%), il trovare prodotti non disponibili negli store (39%), la ricerca di prodotti on line prima dell’acquisto in negozio (39%), l’individuazione del prezzo più basso (39%), la possibilità di guadagnare tempo (38%) e la ricerca di opinioni on line per prendere decisioni (36%). Per la stessa categoria di prodotti invece le barriere che sono state mese a fuoco sono: la necessità di esaminare il prodotto personalmente (56%), seguita dalla preoccupazione di ricevere il prodotto quando non si è in casa (45%) e dal fatto che i consumatori italiani non acquistano prodotti alimentari online se questo implica un pagamento per la spedizione (44%).
Avendo parlato di esperienza d’acquisto però non si deve pensare solo alla vendita diretta. Sono infatti diverse le attività che gli italiani svolgono online a prescindere dalla categoria di prodotti che intendono acquistare: il 47% ricerca informazioni relative al prodotto, il 41% controlla e confronta i prezzi, il 33% intende individuare sconti, promozioni e coupon. Sul versante dell’advertising on line si registra che il 6% degli italiani dice di avere aperto una pubblicità online, il 5% afferma di averne aperta una ricevuta via email, il 4% di avere lasciato like, commenti o tweet sulla pagina di un prodotto o store.
E’ infine importante notare che, così come la media globale (60%), anche gli italiani (60%) danno molta importanza alla fase di verifica dell’affidabilità e della sicurezza del sito in cui stanno navigando, anche se i nostri connazionali si mostrano più fiduciosi nei confronti degli store online; solo il 43% infatti, contro una media mondiale pari al 57% ed europea del 52%, dice di essere preoccupato riguardo alla sicurezza e alla confidenzialità nell’utilizzo dei propri dati personali da parte dei siti online.
Una domanda strategica che affronta un dettagliante che vende anche online:
come devono essere i prezzi nei diversi canali di vendita? E’ opportuno che i prezzi in-store siano gli stessi che i prezzi web?
Alcuni credono che i prezzi debbano essere gli stessi e che la coerenza tra prezzi e canali sia importante per il mantenimento del marchio di un’azienda.
Nella competizione che si scatena per il prezzo migliore, è possibile che alcune catene offrano offline lo stesso prezzo che si trova online e che la prova di un prezzo più caro per lo stesso prodotto, in un altro punto vendita, scateni un meccanismo di ulteriore abbattimento del prezzo nel negozio fisico.
E’ uno scenario possibile?
Scenari
Lo scenario è sicuramente possibile e già si realizza.
Io sto pensando, e consigliando, che i prezzi nel negozio tradizionale ed online siano diversi.
Possiamo assumere come dato di fatto che un pure player, un venditore esclusivamente online, abbia una struttura dei costi significativamente più bassa di un negozio tradizionale?
Questo rende di fatto molto difficile per una catena avere lo stesso prezzo sia nel sito web che nei negozi fisici e generare ancora dei profitti. Da tener in mente, tra le altre cose, che il numero dei competitori varia in ogni ambiente di vendita.
Il mercato online, anche se molti pensano il contrario, è molto più competitivo. Si combatte a colpi di sconti pesanti ed il controllo dei prezzi è molto più facile per il consumatore con il risultato che il prezzo online è generalmente più basso del corrispondente prezzo in negozio.
Vantaggi.
Può essere un vantaggio avere prezzi differenti tra il negozio tradizionale ed il negozio online per lo stesso prodotto?
Una chiave di lettura è sapere che negozio online e negozio offline sono due opzioni di servizio differenti ed il consumatore sceglie quella che è migliore per la sua necessità.
Pensa all’esperienza quando fai rifornimento al distributore di carburante. Scegli il prezzo servito, fai da te e super fai da te.
Ma anche in treno ed in aereo ci sono prezzi diversi per lo stesso prodotto, che si compri online o in agenzia.
Perché i retailer tradizionali non seguono una strategia simile?
Ogni prodotto sostiene diversamente il prezzo. La differenza varia in funzione della possibilità di avere un acquisto di impulso, oppure in funzione del processo di acquisto che comincia online e termina offline. L’esempio calza per gli elettrodomestici dove il prezzo basso potrebbe essere la chiave maggiore che determina vendita ed acquisto.
Fino a quando durerà la ricerca del prezzo più basso online?
Molto a lungo, sempre. Senza dubbio, per continuare a crescere, i rivenditori tradizionali dovranno concentrarsi in modo aggressivo sul potenziamento delle loro capacità di vendita web, proprio perché molti clienti si rivolgono al web.
Ma detto questo va anche ribadito che i consumatori frequentano i negozi.
Io credo che i rivenditori ibridi (negozio web+ rete vendita offline) non hanno che una scelta: fissare prezzi diversi.
Un prezzo unico per essere competitivi con i rivali web sarà perdente per le vendite in-store.
Al contrario, un unico prezzo vantaggioso per le vendite in-store (mediato sui prezzi dei canali) sarà probabilmente troppo alto per competere efficacemente online.
Ma quali sono i metodi di pagamento che i consumatori preferiscono quando effettuano acquisti online? Dall’indagine emerge che gli strumenti più utilizzati in Italia, così come in Europa, sono i pagamenti digitali come Paypal (55%), seguiti da carta prepagata (51%, dato controcorrente rispetto a quello degli altri paesi europei, come Francia al 5%, Gran Bretagna all’8%, e Spagna al 13%), carta di credito (42%), gift card rilasciata dal singolo negozio (27%), contrassegno (25%) e bancomat (12%).
Considerando le categorie di prodotti acquistati online, gli italiani si mostrano più interessati ai beni durevoli; primi fra tutti i viaggi (49%), seguiti da libri/musica (48%), moda (43%), informatica (33%), elettronica di consumo (32%) e biglietti per concerti/eventi sportivi (32%). Più bassi i livelli raggiunti dai beni di consumo: cosmetici (25%), vino e alcolici (9%), cibo da asporto (6%), prodotti per l’infanzia (6%) e cibi freschi (2%). Quest’ultimo dato è largamente inferiore a quello della media europea (14%).
Scegliere la propria policy
E’ un errore vendere la benzina del “servito” al prezzo del “self-service”, come penso sia un errore adeguare i prezzi del negozio al prezzo online. Ma si rischia di dar via troppo valore e di svalutare l’esperienza del cliente in negozio, con un doppio danno: si incoraggiano i clienti a cercare il prezzo online, pagare lo stesso prezzo offline ed avere i vantaggi del negozio fisico.
I prezzi dovrebbero essere comparati per servizi identici.
Il retail offline non dovrebbe offrire il meglio dei due mondi, perché incoraggia un comportamento di consumo distruttivo nel lungo periodo per la stessa realtà fisica di vendita.
l negozio resta centrale nel processo d’acquisto, soprattutto per gli italiani: il 38% (36% a livello globale) si reca settimanalmente in negozio, contro il 25% che utilizza il PC, il 13% il tablet e il 12% lo smartphone. Pur rimanendo determinante nel processo di acquisto, il negozio fisico conquista un nuovo ruolo poiché i consumatori sono sempre più propensi ad utilizzarlo come vetrina per poi comprare online, spinti dalla convenienza di prezzo. Chi preferisce il negozio rispetto ai canali digitali, mette ai primi tre posti la possibilità di provare e testare il prodotto (65% Italia, 60% globale), la gratificazione istantanea dell’acquisto in negozio (52% Italia, 53% globale) e la maggior sicurezza sull’adeguatezza del prodotto nel soddisfare le proprie esigenze (33% Italia e campione globale).
Nuova tendenza: la ricerca incrociata
Il mobile diventa cruciale
Nella fase di pre-acquisto per il consumatore italiano, il 50% dei consumatori usa lo smartphone per fare comparazioni di prezzo o ricercare il prodotto. Le barriere più importanti sono la difficoltà nell’utilizzare i siti mobile, dovuta al gap infrastrutturale in Italia (accesso a mobile broadband o disponibilità di connessioni Wi-Fi negli store) e di user experience, abbinata ad una scarsa percezione di sicurezza nei pagamenti. La combinazione di una maggiore familiarità con i dispositivi mobile e il costante rilascio di innovazioni tecnologiche (e.g. riconoscimento biometrico), inducono a pensare che si tratti di una barriera temporanea destinata a scomparire.
I social influenzano gli acquisti
L’Italia è il Paese che dimostra un impatto più elevato dei social media nelle decisioni d’acquisto , per il 63%. I consumatori visitano i profili dei brand sui social media per accedere a promozioni interessanti (50%) e per visualizzare nuovi prodotti (33%). Al terzo e quarto posto emergono tra le motivazioni la partecipazione a social contest (24%) e la possibilità di interagire con pari o esperti del settore e ottenere suggerimenti (21%).
Cosa vogliono i consumatori di domani?
Tutti i consumatori trascorrono ormai più tempo online da dispositivi mobili rispetto a quelli fissi, con uno scarto più elevato sui più giovani: il target giovani di 18-24 anni è quello che passa più tempo connesso, con 2 ore e 22 minuti al giorno. A fronte di 20 milioni di utenti attivi ogni giorno su Facebook, 16 milioni (76%) accedono da dispositivi mobili. Oggi i maggiori utilizzatori dei canali digitali sono i consumatori fra i 25 e i 44 anni. Da un lato questi consumatori, pur non essendo nativi digitali, non sono estranei alle tecnologie digitali; dall’altro, presentano un elevato coinvolgimento nel processo d’acquisto e possiedono un potere d’acquisto maggiore rispetto ai più giovani.
Chiedono Wi-Fi, experience e integrazione seamless tra online e offline. Pur mostrando interessi simili nei confronti delle diverse tecnologie, i più giovani vorrebbero Wi-Fi gratuito in store, sia per un tema di contenimento dei costi, che per la frequenza e il tipo di contenuti fruiti su mobile. Sono però anche i più interessati a tecnologie fortemente legate all’experience in store, come QR Codes per contenuti aggiuntivi, video walls e mirror interattivi. E sono i più sensibili alla tematica del real time, sia per offerte personalizzate che per verificare la disponibilità dei prodotti.
E-commerce e negozio tradizionale: l’integrazione non si può più rimandare
Le attività commerciali sono un settore d’impresa in continua evoluzione e, da alcuni anni, devono fare i conti con Internet.
L’avvento del web, infatti, dopo un inizio incerto, ha decisamente preso una piega di tipo “business-oriented” promettendo a tutti gli operatori (soprattutto le piccole e medie imprese) una nuova forma di visibilità e una riduzione degli oneri delle attività di vendita grazie ad una sempre maggiore disintermediazione tra offerta e domanda.
Come sempre, ci sono stati gli sperimentatori che hanno aperto la strada – fornendo sia nuove idee che affrontando gli inevitabili errori; quindi tutti si sono pian piano adeguati, inclusi gli operatori “classici” del settore: quelli con una solida tradizione commerciale basata su punti vendita convenzionali.
Dal supermercato al telefonino ed oltre…
Il focus delle attività commerciali è sempre di più su chi compra – perché è informato, sa scegliere e può persino condizionare il sistema di offerta facendo sentire la propria voce. E’ in quest’ottica, perciò, che bisogna leggere il fenomeno della vendita al dettaglio online.
Internet è molto più di un grande catalogo illustrato: consente infatti di esprimere giudizi, di documentarsi sui pareri degli altri utenti, di approfondire svariati temi a differenti livelli di dettaglio, di comparare i prezzi, di verificare la disponibilità di beni di consumo ed eventuali servizi. Insomma: dà ai consumatori un livello di consapevolezza e competenza tali da affrontare gli acquisti con maggiore sicurezza e disinvoltura rispetto al passato – sia quando si compra in negozio che online.
Quindi accade spesso che, prima di recarsi in un punto vendita, gli acquirenti si documentino sui prodotti che intendono acquistare e si rivolgano ai venditori con un’idea molto precisa in testa o magari solo per verificare con mano se le informazioni raccolte sono esatte e se l’oggetto di loro interesse risponde alle aspettative.
Altre volte, dopo una visita presso uno show room, gli utenti approfondiscono le informazioni in loro possesso navigando sul web – magari alla ricerca di condizioni più vantaggiose, minori tempi di consegna, migliori servizi post-vendita ecc.
Tutto ciò è possibile grazie alla disponibilità di dispositivi mobili sempre connessi alla rete – non solo personal computer tradizionali. Quello che è cambiato negli ultimi tempi, infatti, non è soltanto la tendenza a fare la spesa per via telematica evitando così di recarsi al supermercato o in negozio, ma quella di integrare le due esperienze senza soluzione di continuità.
Un nuovo canale commerciale per le imprese
L’affiancamento dei canali online ed offline presenta ulteriori valenze e rende disponibili nuove opportunità. La geolocalizzazione, ad esempio, consente agli utenti dei dispositivi mobili di ricevere informazioni e suggerimenti per gli acquisti di tipo contestuale, ovvero in funzione della presenza nelle vicinanze di determinati punti vendita.
Non solo è più facile trovare un negozio o un articolo, ma questo stesso negozio può “richiamare verso di sé” un potenziale cliente, magari facendogli una proposta interessante o particolarmente conveniente.
In pratica, la circolazione in tempo reale di informazioni e l’automazione resa disponibile da speciali applicazioni capaci di conoscere dinamicamente le preferenze, i gusti e persino la localizzazione degli utenti nel mondo reale, offre inedite possibilità sia ai consumatori che alle imprese.
L’ovvia conseguenza? Non essendoci più una vera distinzione tra commercio tradizionale ed elettronico, chi gestisce una catena di supermercati, o anche un semplice negozio, non può aspettare ancora molto prima di decidersi ad entrare nello spazio virtuale – pena la perdita di opportunità.
Integrazione e sinergia
I pionieri dell’e-commerce hanno dato un forte impulso al settore della logistica, dato che comprare online significa normalmente farsi recapitare a casa gli oggetti acquistati (con tutto quanto ne deriva in termini di tracciamento dei colli, orari preferenziali per la consegna, gestione dei resi, eventuali danni di trasporto, ecc.).
Cosa ha permesso a questo modello di avere un immediato successo? Il fatto che in rete si può trovare praticamente qualsiasi cosa (nuova o usata che sia) e la convenienza (ottenibile grazie al taglio degli intermediari) compensa abbondantemente le ulteriori spese di spedizione (e qualche rischio).
Tutto questo ha dato impulso non solo alla sicurezza informatica per garantire l’efficienza e la correttezza delle transazioni commerciali per via telematica, ma anche alla creazione di nuove forme di pagamento – flessibili, convenienti e garantite.
Il passo successivo? Naturalmente è stato – ancora una volta – quello di coinvolgere i punti vendita tradizionali. Le nuove modalità di pagamento, infatti, hanno ben presto fatto il loro ingresso nei negozi che, grazie alla loro diffusione sul territorio, spesso si prestano a funzionare anche come centro di raccolta e distribuzione dei colli spediti via corriere.
Gestione aziendale ed e-commerce
Se questo livello di integrazione funzionale ed operativa è già un successo in sé, la sinergia più importante e strategica nasce dalle informazioni – non solo quelle sui prodotti, ma anche sui consumatori e sulle transazioni commerciali.
Ogni azienda, dalle multinazionali alle PMI, gestisce i propri flussi produttivi grazie alla creazione ed elaborazione di grandi quantità di dati che riguardano entrate ed uscite, materie prime, fabbriche, magazzini, ordinativi, fatture, ecc.
Da tempo, questi importanti aspetti gestionali sono stati affrontati e risolti con successo grazie ad apposite applicazioni informatiche denominate ERP ma, a ben vedere, la realtà è più complessa della semplice contabilità.
Dei propri clienti, ad esempio, non basta soltanto conoscere le informazioni di tipo anagrafico e l’indirizzo a cui inviare le fatture: se un’impresa vuole migliorare la propria efficienza in senso proattivo, è molto utile saperne sempre di più sul proprio mercato.
Non si tratta solo di attività di marketing strategico e operativo, ma anche di fidelizzazione, di conoscenza di gusti e preferenze, di creazione di un rapporto discreto ma continuo con la propria audience attraverso il quale offrire suggerimenti, proporre nuovi prodotti e comunicare novità interessanti.
Il commercio elettronico, che per definizione è un tipo di rapporto informatizzato con gli utenti finali e che, altrettanto per definizione si basa sull’acquisizione e gestione delle informazioni, è in grado di contribuire alla creazione di quell’inestimabile patrimonio di “intelligence” sui clienti – effettivi e potenziali – di cui si parlava prima.
Il percorso? Semplice: l’e-commerce non è solo vendita al dettaglio online, ma è anche una metodologia strettamente legata al marketing multicanale, capace di raggiungere nuovi bacini di utenza grazie ai motori di ricerca ed ai Social Media, interessarli e “convertirli” verso il brand. Quando poi questi contatti diventano clienti, la cosa migliore è continuare a gestirli in un’ottica di interazione costante, in grado di mettere le informazioni raccolte sui propri acquirenti a disposizione dell’impresa nel suo insieme – non solo per ottimizzare le funzioni di vendita in sé e collegarli agli altri processi aziendali, ma anche per pianificare meglio la produzione o persino ispirare la creazione di nuovi prodotti.
E’ perciò più che evidente quanto sia importante collegare ERP ed e-commerce. In particolare SAP, attraverso la soluzione SAP Business One, concepita espressamente per le PMI, offre alle aziende gli strumenti tecnologici per integrare questi due aspetti basilari delle attività d’impresa.
A tale proposito, compilando il form presente sulla pagina potrete ottenere ulteriori informazioni.
Le normative
Visto che il futuro del commercio è definitivamente online, così come lo saranno sempre più aspetti della nostra vita, e dopo avere mostrato come la vendita al dettaglio tradizionale non sparirà ma sarà sempre più una combinazione di approcci tradizionali e innovativi, è giunto il momento di spiegare in modo un po’ più dettagliato cosa significa, per un’impresa, passare alla modalità e-commerce.
Il commercio elettronico, dal punto di vista normativo, rientra nella categoria della vendita a distanza (per corrispondenza, attraverso la televisione, il telefono, ecc.).
In Italia la vendita online è stata disciplinata a partire dal 1998 a seguito del Decreto Legislativo Bersani sul commercio (Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 114 ), che per primo ha introdotto il concetto giuridico di “commercio elettronico”.
Anche nel commercio elettronico, secondo il Ministero, devono essere distinte due diverse tipologie di attività: la vendita all’ingrosso e quella al dettaglio. Altra importante differenza è tra commercio elettronico Business to Consumer (B2C) e commercio elettronico Business to Business (B2B).
Il commercio business to consumer è la forma di commercio elettronico più nota e riguarda l’acquisto di beni e servizi da parte del consumatore finale. Il commercio business to business, invece, riguarda transazioni commerciali tra aziende, quindi non interessa il consumatore finale di beni e servizi.
Fresca della maxi acquisizione da 13,7 miliardi di dollari di Whole Foods, l’azienda americana mette così il turbo anche all’area Fashion, su cui cerca di puntare da tempo.
I clienti che useranno il nuovo servizio, quindi, oltre a beneficiare di consegne ultra rapide e dell’accesso illimitato a film e serie Tv di Amazon, avranno un incentivo ulteriore a spendere. Ma solo se soddisfatti. Gli articoli che potranno essere acquistati solo dopo la spedizione riguarderanno le collezioni donna, uomo e bambino (sia abiti sia accessori e scarpe) e Amazon promuoverà acquisti ‘massicci’, grazie a scontistiche mirate (si parla del 10% di sconto a fronte di tre capi su quattro tenuti, e del 20% su cinque articoli acquistati). A essere disponibili non saranno solo i prodotti degli house brand di Amazon, ma di svariati altri marchi come Adidas, Calvin Klein, Levi’s e Hugo Boss, fino a raggiungere 1 milione di articoli in totale.
Per il momento, il modello del “compra ora, paga dopo” ha fatto breccia soprattutto nella fascia media del mercato (con servizi molto apprezzati negli Usa come quelli di Stitch Fix e Trunk Club), ma non è escluso che possa essere presto esteso anche al lusso.
Non c’è pace per Amazon dopo gli attacchi di Google ed eBay nel mercato dell’ecommerce. L’ultimo assalto arriva da Walmart, leader mondiale del retail. La multinazionale della GDO ha deciso di entrare nella competizione per accaparrarsi alcune quote del mercato presidiato da Amazon sfruttando la sua forza offline e giocando la carta della multicanalità.
“È molto efficace utilizzare i nostri punti vendita – ha dichiarato Joel Anderson, Ceo di Walmart.com – Abbiamo stoccato e immagazzinato prodotti per anni. Immagazzinare dai negozi non è diverso: prendiamo i prodotti dagli scaffali e li mettiamo nelle scatole”.
Dal retail classico Walmart si sta quindi lanciando nel settore dell’ecommerce, in quel terreno ibrido presidiato da Amazon che però sta attirando l’interesse dei giganti del commercio e di internet, primo fra tutti Google. “Stiamo dimostrando di poter fare tutto quello che sono in grado di fare le altre aziende di ecommerce – ha affermato Neil Ashe, Ceo di Walmart Global eCommerce – E, grazie alla rete di distribuzione organizzata più grande del mondo, possiamo ottenere quello che per gli altri è irraggiungibile”.