Il bambino di vetro di Federico Cruciani è un film tratto dal magnifico libro di Giacomo Cacciatore Figlio di vetro, opera di cui consiglio il recupero per confrontare ancora una volta le differenze linguistiche tra immagini e parole scritte. Vi si parla di mafia, di contagi della mente, degli sguardi (sino a quando?) innocenti dell’infanzia.
Nel libro soprattutto si rievoca un anno, il 1977, dodici mesi di frontiera a loro modo indimenticabili. Fu il periodo più radicale degli altrimenti definiti “anni di piombo” con decine di morti, feriti e arrestati. Tra i morti, nomi come Pier Francesco Lorusso e Giorgiana Masi, nonché diversi esponenti delle forze dell’ordine (Graziosi, Passamonti, Custrà e altri). Tante altre vittime inutili, come il giornalista di Torino Carlo Casalegno. Le gambizzazioni di Montanelli e di Emilio Rossi. La fuga di Kappler da Roma. Il calciatore della Lazio Luciano Re Cecconi ucciso in una gioielleria per aver mimato scherzosamente una rapina.
Nel resto del mondo non si stava meglio. Negli USA il 1977 segna la fine della moratoria sulla pena di morte con l’esecuzione di Gary Gilmore nello Utah. In Francia si usa ancora la ghigliottina con la decapitazione dell’omicida Amida Djandoubi. Nel carcere di Stammheim, in Germania, tre membri della RAF vengono ritrovati morti dietro le sbarre. Poi ci sono segnali “di vita” dal cinema e dallo spazio. Escono Guerre stellari di Lucas e qualche mese più tardi Zombi di Romero, mentre il radiotelescopio Big Ear della Ohio State University riceve dallo spazio un preciso segnale che pare collegarsi a una qualche intelligenza extraterrestre: il messaggio viene denominato “wow signal“, riferimento a un commento scritto lasciato come appunto da un tecnico di turno. Nel 1977 la RAI inizia ufficialmente le trasmissioni a colori in televisione e la mafia uccide a Ficuzza, in Sicilia, il tenente colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo e con lui muore l’insegnante Filippo Costa.
Nel 1977 Giacomo Cacciatore ha dieci anni, io ne ho 27 e Giovanni Vetro, protagonista del libro e del film, ne ha nove. In quell’anno, a Palermo come altrove, certe persone, per le strade, stanno sempre negli stessi posti, a gruppi sparsi, come oggetti semoventi dell’arredo urbano.
“È come se li avessero piantati in varie zone della città con i piedi dentro a un buco, per fare ombra a un angolo della strada, a una saracinesca aperta o chiusa, a una panchina. Sembrano le palme della villa. Come le palme, non fanno niente: prendono il sole, dondolano al vento e parlano fiacco, quasi frusciassero.” (1)
Sono mafiosi, ma non esistono perché la mafia non esiste né esiste la parola. Ma loro sono lì, controllori della strada, di gente, di negozi, di attività e di esistenze. A suo modo, una forma di equilibrio. Anche nell’anima in formazione di Giovanni, figlio di Vincenzo “il Turco”, sino a quando non arrivano, in sequenza, la televisione a colori e il film Zombi (al cinema), trasgressioni proibite che però aprono la mente, facendo intravedere luoghi e parole “che – appunto – non esistono”. La forza metaforica delle immagini artificiali, dei colori imperfetti e saturati, aprono al bambino un terzo occhio che sta attendendo chissà da quanto tempo un wow signal. Ed è la forza – non solo metaforica – di un genere (l’horror antropofago ufficialmente inaugurato da Romero in un altro anno di svolta, il ’68, la cui onda lunga ancora continua imperterrita e “vitale”), che nelle mani di Giacomo Cacciatore si sublima in quintessenza, diventando il tangibile collante di una realistica e “contagiosa” storia di mafia.
Dalla televisione (a colori, Starsky e Hutch, Fonzie e le telenovelas) a Zombi il contagio culturale scivola, invisibile e implacabile. L’horror diventa il viatico per un bambino di nove anni che entra all’Astracine – non ci dovrebbe entrare, perché il film è vietato, ma ad Alessandria entrai anch’io nel ’61 al cinema Galleria per vedere Psycho che non potevo in alcun modo vedere e ne godo ancora oggi le conseguenze – e che scopre l’esistenza di un mondo oltre lo schermo dove le teste scoppiano, i morti mangiano i vivi e dopo un po’ tutti si mangiano fra loro. Proprio come al di qua dello schermo.
“Uccidono per nutrirsi. Mangiano le loro vittime, mi spiego, mister Berman?”, dice l’intervistato all’intervistatore nero. “Perché tornano in questo supermercato?”, si chiedono l’uomo e la donna sul tetto. “Deve essere l’istinto. Era un posto importante quando erano vivi”. “Non dobbiamo credere che si tratti di nostri amici o parenti, non lo sono più”, fa l’uomo con la barba e la benda su un occhio. “Ho visto molte persone morse dagli zombi, – dice il poliziotto nero. – Nessuna è mai sopravvissuta per più di tre giorni.” “Occupati di me, quando ti accorgerai che sono diventato uno di quei cosi, – implora il poliziotto biondo, contagiato. – Io cercherò di non tornare, cercherò di non tornare, cercherò…” (2)
Contagio, cannibalismo, homo homini lupus. Perché quel che si vede oltre lo schermo dovrebbe essere mera fantasia?
Nel 1977 il Festival di Sanremo fu vinto dagli Homo Sapiens, il Parlamento sanzionò ufficialmente lo scandalo Lockeed e nella televisione a colori irruppe Beppe Grillo e nessuno avrebbe mai immaginato il suo destino di dirigente politico.
Cominciava una lotta, cominciava una guerra. Uomini in bianco da una parte che lottavano per isolare il virus e creare gli anticorpi, uomini in nero (Uomini Neri nascosti nell’armadio a muro) dall’altro che spargevano come vili monatti i semi del contagio. Con punte di orrore che hanno segnato per sempre la memoria collettiva della nazione e che hanno, comunque, costretto la mafia a dichiararsi come esistente. Perché il contagio criminale esiste, eccome. Punte di orrore come la strage di Capaci che piomba nelle pagine finali di Figlio di vetro a ricordarci il terribile prezzo che si paga in guerre del genere. Ancora una volta dentro il televisore (a colori):
… è la prima volta che si vede una cosa così sullo schermo, senza salti d’immagine, senza possibilità di equivoco, senza ombre. Da lontano, sono come i resti di un pranzo finito male. L’autostrada non sembra più un’autostrada. È un pesce che si è capovolto sul vassoio. Ha sparso viscere da uno squarcio, ha sbalzato tutto quello che ci stava sopra. Sul tronco di un albero si è attaccato un rettile. Se guardi meglio, è la carcassa di una macchina. Ci sono altri relitti, coperti con teli che hanno il colore delle divise dei soldati da guerra. Un elicottero sorvola la zona. Anche quelli con la faccia più cattiva sembrano confusi. – Minchia, – dicono. (3)
Zombi in originale s’intitolava Dawn of the Dead, ovvero L’alba dei morti viventi. Da allora un mare di cinema e televisione con gli zombie in grado di metaforizzare tutto ciò che si agita cannibalisticamente nella realtà, da Trump ai terroristi, dai migranti ai vampiri in parlamento.
Sembra un giorno senza fine al di là e al di qua dello schermo purtroppo, ma i veri poeti sono in grado di farci assaporare la speranza. Anche quando nasce da rovine e macerie di morte.
Angolo lucente di purissima letteratura e di toccante poesia, Figlio di vetro ci ricorda ancora una volta che occorre spiare bene nel buio e definite il Male, guardandolo in faccia. Perché, se esiste, può morire.
Note
1.Giacomo Cacciatore, Figlio di vetro, Einaudi, Torino, 2007, pag. 41-42.
2.Giacomo Cacciatore, Figlio di vetro, Einaudi, Torino, 2007, pag. 76.
3. Giacomo Cacciatore, Figlio di vetro, Einaudi, Torino, 2007, pag. 162-163.