La bellezza del numero cinque è provata dal fatto che quasi tutti i sistemi di numerazione conosciuti si basino su di esso o su suoi multipli (il dieci, il venti, il sessanta), il che è probabilmente dovuto al numero di dita di una mano. L’Uomo stesso, in modo simile al vitruviano di Leonardo da Vinci, costituisce col capo e le estremità degli arti una sorta di stella a cinque punte: il famoso Pentacolo, simbolo della sessualità mistica e dell’unione dei quattro Elementi Naturali con lo Spirito.
Sono fin troppe le sedi di sedicente approfondimento culturale che svendono questioni antropologiche con l’atteggiamento con cui si fanno fette di salumi di scadente qualità. Non vorrei qui compiere un atto di simile malgusto, e la semplificazione serve solo per provare ad arrivare al mio punto: il cinque rappresenta spesso il rapportarsi e il mediare dell’Uomo tra il Mondo materiale che lo circonda e il Mondo dello Spirito.
È proprio di tutti gli individui e di tutte le Epoche l’aver colto questa doppia natura della nostra idea del Mondo: da un lato quello che i nostri sensi direttamente ci consegnano, e dall’altro quello che la vita dentro di noi costruisce con queste informazioni sensoriali. Sensibilità diverse hanno di volta in volta letto in modi diversi la questione: tendendo a sopprimere una delle due istanze, vedendole come una netta scissione, cogliendone la complementare coesistenza.
Forse il primo Secolo a considerare di pari importanza le due ed ad avvertirne però una scissione radicale pur nella costante fondamentale coesistenza è stato il Barocco. Il senso del fantastico e del meraviglioso barocco è forse anche questo.
Opera che a suo modo schiude il Barocco letterario e che al contempo costituisce un capolavoro assoluto della Letteratura mondiale – nonché probabilmente il romanzo piú letto di sempre – è “L’ingegnoso hidalgo don Quijote della Mancia” (noto anche con titoli abbreviati come “Don Quijote della Mancia”, “Don Quijote”, “Don Chisciotte”, “il Chisciotte”).
Ambientato in epoca suppergiú contemporanea al periodo di stesura del romanzo (che avvenne, per la sua prima parte, a Messina nel primo decennio del XVII secolo), narra di un anziano nobile spagnolo a nome Alonso Quijano: appassionato fino alla follia di romanzi cavallereschi, costui parte alla ventura in cerca d’imprese degne degli antichi Paladini trascinando nelle sue demenziali vicende un uomo del contado – Sancho Panza – con mirabolanti promesse.
L’inadeguatezza alla realtà della visione del Mondo dell’hidalgo dà origine a vicende grottesche ed a situazioni di sincera comicità. Ma il centro del romanzo non è il grottesco e il comico della conseguenza, ma l’inadeguatezza della causa. Un umorismo ben piú profondo e complesso costruisce il romanzo, investendo della sua luce rivelatrice e bizzarra le vicende del Quijote.
Il punto non è tanto la serie di eventi che lo circondano né la serie di pensieri che egli concepisce: è l’incontro fra questi, conflittuale fino al delirio.
Si tratta, naturalmente, di uno dei libri piú divertenti che possa capitare di leggere: divertente di quello stesso divertimento che si cerca al di fuori dei Classici (ma si è destinati a non trovare al di fuori delle opere di un Genio), capace di avvincere e commuovere e di far letteralmente ridere durante la lettura. Una quantità quasi incalcolabile di trame secondarie occhieggia dalla principale ed arricchisce il mondo narrato fino a farlo esplodere in una rigogliosa varietà di forme e di storie simile al pullulare di una grande pinacoteca o di una selva indiana.
In questo mondo si muove il Chisciotte, divenuto incapace a distinguere fra il mondo stesso e l’idea di mondo che vi ha sovrapposta facendola aderire fin negli atomi. Soprusi agli indifesi e fanciulle da salvare gli paiono invocare il suo nome di Paladino da ogni angolo, nobiltà e cortesia gli paiono il desiderabile destino della sua vita d’avventure. Il Mondo reale non ha né interesse né possibilità di smentirlo, se non con il proseguire dell’avvicendarsi dei fatti.
Nella distanza fra Mondo e Idea sta il nostro modo di definirci come individui. L’inettitudine a muoversi lungo il precorso di tale distanza è il senso della follia di don Quijote, che non vede questa distanza.
Man mano che il romanzo va avanti (e che, nel passaggio dalla prima alla seconda parte, l’Autore invecchia), la dimensione comica inizia sempre piú a lasciare il posto a una sorta di malinconia densa e profonda: nel rapporto (ancora rappresentato di tradizione dal numero cinque) fra Macrocosmo e Microcosmo – fra immagine dell’Io e immagine del Mondo –, l’attenzione è sempre piú concentrata sull’uomo Chisciotte; il personaggio di Donchisciotte era già diventato celeberrimo nel corso della decina d’anni che separa la stesura della prima dalla seconda parte, tanto da rappresentare già – fuori e dentro dall’opera – l’immagine tipica di sé stesso e da far sembrare la sua vita una meditazione su sé stessa.
«Io sono nato», come dirà sul suo letto di morte: «per vivere morendo.».