Una capitale europea è stata di nuovo presa di mira dal terrorismo e, come ogni volta, oltre allo struggimento per le vittime, sentiamo montare la rabbia verso gli aggressori e la paura di poter essere noi il prossimo bersaglio. Questi attacchi, infatti, più che puntare sul numero di morti mirano alle conseguenze psicologiche che la possibilità di poter essere uccisi in modo imprevedibile, aspecifico, durante lo svolgimento delle normali attività della vita quotidiana hanno su tutti noi: la violazione del nostro senso di sicurezza, delle aspettative sociali e relazionali che abbiamo nei confronti degli altri esseri umani, generando una paura incontrollabile di subire un’aggressione.
La rabbia e l’aggressività estrema che caratterizzano gli atti terroristici hanno delle peculiarità che le rendono diverse dalle consuete risposte delle persone che vedono minacciata la loro incolumità e sopravvivenza. Prima di tutto sono risposte intenzionali e non istintive, non strettamente individuali e immediate rispetto alle cause scatenanti, ma pianificate e differite nel tempo. Gli attentati non sono quindi una risposta istintiva a un torto subito, ma hanno degli antecedenti psicologici più complessi, tanto che si parla di una vera e propria “socializzazione terroristica”.
L’autore Moghaddam individua le 6 tappe psicologiche, individuali e psicosociali che possono spingere un individuo ad intraprendere questa socializzazione:
1. L’individuo, spesso giovane ed emarginato, sperimenta condizioni di povertà, difficoltà o deprivazione materiale e sociale che percepisce come forme di ingiustizia e che imputa a responsabili esterni alla propria società/gruppo;
2. Se il soggetto e il suo contesto sociale non riescono a sviluppare risposte costruttive o i tentativi appaiono costantemente disattesi si può iniziare a sviluppare un senso di frustrazione e un’aggressività nei confronti dell’ingiustizia percepita;
3. L’individuo può spostare l’aggressività dal suo desiderio di sanare l’ingiustizia a coloro che si immagina possano esserne i responsabili;
4. La persona si avvicina a gruppi che possono canalizzare la sua rabbia promettendo di soddisfare il desiderio di rimediare ai torti subiti, con discorsi apparentemente molto “giusti” e “morali”. I vissuti di rabbia vengono validati socialmente, l’individuo inizia a sentirsi speciale e portatore di una missione;
5. Il livello di socializzazione aumenta, così come l’identificazione con il gruppo, tanto da essere ritenuto il depositario dell’unica verità possibile, abbracciando un pensiero dicotomico tra Noi Bene, rappresentato da impegno sociale e morale, e Altro Male, su cui si proietta confusione, apatia o l’immagine del nemico che ostacola la missione;
6. Inizia la depersonalizzazione di tutto e tutti coloro che sono fuori dal gruppo, facilitando l’espressione di azioni violente.
A partire da questi punti mi sento di fare due riflessioni. La prima è quella che sembrano essere una possibile cornice esplicativa non solo per gli attentati di matrice estremista islamica, ma anche per tutto il “nazionalismo di ritorno” che caratterizza il panorama politico europeo e italiano. Gli zingari chiusi in gabbia e derisi, le donne africane rifiutate da un intero paese sono l’esempio di come il Noi Bene deumanizzi l’Altro Male non in base a un reale torto subito nell’immediato, ma in base a un’identificazione del loro status come la causa delle ingiustizie subite.
Assume quindi grande importanza la prevenzione nella famiglia e nelle scuole perché se i genitori migranti si sentono umiliati da noi, non riescono a dare i giusti insegnamenti ai loro figli e viceversa. Sia gli investigatori che le intelligence sottolineano che il rischio di radicalizzazione può nascere in un giovane che sperava di trovare una nuova vita in Occidente e che invece si accorge che non avrà mai le stesse cose dei suoi coetanei europei a causa della mancata integrazione.
È in discussione alla Camera un disegno di legge chiamato “Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista” che ha l’obiettivo di coinvolgere ministeri e strutture pubbliche per avviare una controinformazione e un maggiore dialogo interreligioso.
Se avete curiosità o domande a cui vorreste risposta potete scrivermi a poggio_sara@libero.it e i vostri quesiti saranno i protagonisti di “Psicologia in pillole”!
Fonti:
http://www.ordinepsicologi.piemonte.it/terrorismo/la_vita_ai_tempi_del_terrorismo.pdf
http://formiche.net/2017/03/13/conseguenze-psicologiche-isis/
Dr.ssa Sara Poggio
Psicologa Psicoterapeuta Cognitiva
In Forma Mentis
Studio di Psicologia e Chinesiologia, Acqui Terme
poggio_sara@libero.it