di Andrea Antonuccio.
«Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere… Di no come risposta non si vive, di no si muore»
Michele, suicidatosi il 31 gennaio 2017
Fa impressione leggere la lettera del ragazzo 30enne della provincia di Udine, Michele, che si è impiccato il mese scorso, distrutto dalla disperazione per non aver trovato uno straccio di lavoro.
Fa impressione leggere queste parole: «Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti». Dietro non c’è solo il lavoro (e la sua cronica mancanza). C’è il desiderio di essere stimato, voluto, desiderato: amato, in una parola. Il desiderio di costruire, e che qualcuno se ne accorga. Il desiderio di vedere una possibilità per sé, di non dover tornare a casa senza aver combinato nulla.
Scrive ancora Michele, rivolto ai genitori: «Io lo so che questa cosa vi sembra una follia ma non lo è. È solo delusione. Mi è passata la voglia: non qui e non ora. Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza sì». Leggendo, ho pensato subito ai miei due figli, che si stanno guardando intorno per scegliere l’università. Mi ha colto un profondo smarrimento, una vertigine. Un giorno, tra qualche anno, al posto del ragazzo che si è suicidato potrebbero esserci loro. Senza un lavoro, con un pezzo di carta inutile tra le mani, e un senso di impotenza e frustrazione pari a quello di Michele. Non so se avrò le parole e il sorriso per distoglierli dal gettare la spugna nei confronti della vita.
Ci sono tanti Michele, intorno a noi, senza un’occupazione seria e duratura. Il lavoro è la vera emergenza del millennio, almeno dalle nostre parti. Fossi un politico, a qualunque livello, me ne occuperei veramente. Perché chi non lavora non può costruire il suo futuro, evidentemente. Ma nemmeno può aiutare a costruire quello delle generazioni che verranno. A cui stiamo lasciando, onestamente, una triste e pesante eredità.