di Andrea Antonuccio.
«Al pubblico piace quando i cattivi vengono puniti»
Charles Bronson, attore americano (1921-2003)
Un giorno di luglio dell’anno scorso, la Fiat Punto di Italo travolge lo scooter guidato da Roberta. Lei va a sbattere contro un semaforo. Corsa all’ospedale, ma niente da fare: Roberta, 34 anni, muore per l’incidente.
Italo, dopo alcuni mesi, viene rinviato a giudizio per omicidio stradale. E’ un uomo libero, cavalca la sua moto e a volte (dicono alcuni) incrocia lo sguardo di Fabio, marito di Roberta. Quello che i due non si dicono, per imbarazzo o strafottenza, è di certo più feroce di quello che avrebbero da dirsi.
Si arriva a qualche giorno fa. Fabio, il vedovo, affronta Italo e gli spara quattro colpi da vicino con una pistola semiautomatica. Fabio la mette in un sacchetto e la posa sulla tomba della moglie. Come a dire: giustizia è fatta, riposa in pace. Poi chiama un amico, racconta tutto, va dai carabinieri e si costituisce. Fine della storia.
Scriveva Fëdor Dostoevskij ne I fratelli Karamazov: «Voglio vederlo coi miei occhi il daino che gioca accanto al leone e l’ucciso che si rialza e abbraccia l’uccisore; voglio esserci anch’io quando tutti sapranno finalmente perché le cose sono andate così».
Di fronte alla tragedia che si è consumata tra Fabio, Italo e Roberta, anch’io vorrei sapere perché le cose sono andate così. Vorrei che la giustizia, anche quella privata, non fosse privata di senso. Sia chiaro, senza giudicare (come potremmo, di fronte a una cosa del genere?). Ma anch’io, come il personaggio dei Karamazov, vorrei sapere perché le cose sono andate così.