Con estrema franchezza: occuparsi di una discarica e non di Solvay è come preoccuparsi della pagliuzza nell’occhio piuttosto che della trave.
A un titolo a cinque colonne (es. La Stampa/Piero Bottino) “Una discarica alla mercè del Bormida” riferita alla cava “Clara e Buona”, dovrebbe in proporzione corrispondere un intero giornale dedicato allo stato attuale della falda sottostante la Fraschetta. Semmai è il Bormida, e non solo, alla mercè della Solvay. Si comprende che i giornali preferiscono non disturbare i grossi padroni dell’inquinamento, tanto più perché non lo fanno i politici e gli amministratori pubblici, si comprende un po’ meno che la popolazione tenda ad esorcizzare i pericoli più gravi cercando di ignorarli (ma non affrontandoli), non si comprende affatto che Associazioni ambientaliste e Comitati si sparpaglino a difendere ciascuno l’innaffiatoio del proprio orticello.
Ma che senso ha impedire a Spinetta Marengo l’ipotetico inquinamento della falda dai rifiuti del Tav Terzo Valico, quando questa falda è già ai livelli massimi di inquinamento? Come minimo, mentre ci si batte per impedire il peggioramento dell’amianto, ci si batta per conseguire la bonifica della falda (ammesso e non concesso che non stia diventando irreversibile), altrimenti il Terzo Valico aggiungerebbe un cucchiaino al lago di veleni ben più potenti e pericolosi. Analoghe considerazioni valgono per la grande lotta dei Comitati della Valle Bormida. O ci si mette in testa che la falda è unica, che la battaglia deve essere unica, che l’unione fa la forza, altrimenti sono tutte battaglie perdenti e inutili. Tutte le battaglie sono perdenti se non si affronta la bonifica della Solvay di Spinetta Marengo. Non lo dico io, lo ammette la sentenza della Corte di Assise di Alessandria che svolge una analisi esemplare dello stato di inquinamento… per poi non trarne le conseguenze sul piano delle condanne ai veri responsabili (piuttosto che ai pesci minori). Vediamo in breve cosa ebbe sanzionato in sentenza la Corte, sottolineando che oggi l’avvelenamento della falda è rimasto tale, anzi aggravato, nell’indifferenza e nell’inerzia delle autorità pubbliche e della politica, compresi gli organi di informazione e ahimè parte del mondo ambientalista.
E’ indubitabile che il disastro ecologico di proporzioni immense c’è, scrive il Tribunale, “non solo rilevante ma difficilmente reversibile”. La sentenza dimostra, con puntigliosa analisi della vicenda storica all’origine del procedimento, dei dati di indagine e del percorso dei contaminanti, del modello idrogeologico del sito, dimostra che la falda della Fraschetta, tanto quella superficiale che quelle profonda, per chilometri a monte addirittura dello stabilimento di Spinetta Marengo e fino al fiume Bormida, senza soluzione di continuità fra Ausimont e Solvay, è fortemente e -in progresso inquinata- ( avvelenata n.d.r.) da un cocktail di sostanze tossiche e cancerogene immesse nel passato e/o nel presente dall’industria chimica, “con concentrazioni superiori ai valori di soglia di parecchie decine di volte, di centinaia di volte, talvolta anche di migliaia di volte” (sic). La Corte dimostra inoltre, documentalmente, che i dati del grave inquinamento (avvelenamento) erano conosciuti tanto da Ausimont che dalla subentrante Solvay, anzi nascosti agli Enti pubblici, edulcorati, in doppia forma, contraffatti. Con altrettanta puntigliosità la Corte analizza le cause dell’inquinamento (avvelenamento) della falda, conosciute e nascoste e contraffatte tanto da Ausimont che da Solvay: le discariche non autorizzate e gli stoccaggi tossico cancerogeni, le perdite di acqua di processo e di raffreddamento (300 mc/h), le perdite di rete fognaria, l’assenza di manutenzioni, il dilavamento e la percolazione anche delle acque meteoriche, l’alto piezometrico, quanto meno 800.000 metri cubi di terreno contaminato pari a oltre 1.150.000 tonnellate. E dimostra, tanto per Ausimont che per Solvay, che non solo l’inquinamento (avvelenamento) era conosciuto ma anche che dello stesso si ritardasse la bonifica con diversioni, menzogne, silenzi strategici, inutili pozzi barriere, “il tutto equivalente a produrre contaminazione e ad aggravala “(sic). La Corte di Assise di Alessandria dimostra inequivocabilmente il dolo (anche se poi non lo sanziona con condanne coerenti), scrive : “Si può affermare che, a fronte di un sito altamente contaminato, fonte di grave inquinamento veicolato nella falda acquifera sottostante lo stabilimento e migrante all’esterno, potenziato nei suoi effetti di dispersione da ulteriori condotte attribuibili alla gestione industriale per l’esistenza di perdite che incrementavano il percolamento, la solubilizzazione, la lisciviazione dei contaminanti di cui il terreno era intriso, nessun reale e serio intervento è stato compiuto, nel periodo di imputazione, per la rimozione delle fonti inquinanti (terreni contaminati), l’eliminazione delle perdite che cagionavano la diffusione delle sostanze tossiche, il contenimento del flusso della sua espansione verso l’esterno”.
La falda inquinata (avvelenata) è qualificata espressamente “riserva idrica” dal Piano regolatore comunale e dal Piano di tutela delle acque della Regione, dunque trattasi di acque destinate all’alimentazione. La sentenza, elencando il numero dei pozzi privati e pubblici, definisce infine: “In conclusione. Poiché molteplici sono le fonti di attingimento anche per uso alimentare dalla falda sottostante lo stabilimento e le zone limitrofe, la Corte afferma che l’acqua in esso [acquifero] contenuta era destinata (anche) all’alimentazione”. Secondo la Corte, dal punto di vista qualitativo non c’è dubbio che trattasi di “veleni” tossico cancerogeni, senza considerare che sono combinati in un cocktail con effetti probabilmente esponenziali. Scrive: “Quanto all’attingibilità, basterà evocare i pozzi della cascina Pederbona, investita in pieno dal pennacchio di contaminazione che fuoriusciva dallo stabilimento, pozzi che, durante tutto il periodo di imputazione, hanno fornito acque irrigue per le colture dell’azienda agricola e per l’abbeverata degli animali da latte, quindi per scopi strettamente connessi con la vita umana, anche sotto il profilo dell’alimentazione, sia pure mediata, attraverso i prodotti dell’allevamento”.
Di più, aggiungo che il pozzo dell’acquedotto denominato Bolla, che pesca in falda profonda, è stato addirittura chiuso dall’Arpa, e che il pozzo 8, destinato ai lavoratori e ai cittadini del sobborgo, che già nel 1988 l’azienda considerava pericoloso e da chiudere, che pesca a 100 metri dunque in falda profonda, posto addirittura sotto lo stabilimento, vietato in zona di rispetto e tutela assoluta, addirittura tenuto in funzione anche dopo l’avvio 2001 della (presunta) bonifica, addirittura attivo fino al 2008 apertura processo, ebbene il pozzo 8 aveva “ concentrazioni di cromo esavalente e tetracloroetilene che hanno superato” e non di poco! “anche i limiti del D.Lgs 31/01 sulle acque potabili”! E che l’altro pozzo, denominato 2, ad uso potabile dentro lo stabilimento, superficiale e sicuramente avvelenato, viene chiuso solo nel 2001. Infatti non si può dimenticare (a conferma della mia) la testimonianza della stessa teste della difesa Solvay: sui rubinetti dei servizi dei dirigenti era apposto il cartello ACQUA NON POTABILE; mentre tutti gli altri dipendenti e abitanti erano tenuti all’oscuro! Nessun risarcimento alle parti civili a titolo dei decessi e delle malattie, di cui il processo non si è occupato.
Quanto sopra è ciò che ha sanzionato la sentenza. Dopo di che l’avvelenamento della falda è rimasto tale, anzi aggravato, in quanto -nell’indifferenza delle autorità pubbliche- in sede penale non è stato previsto il danno ambientale chiesto dal Ministero dell’Ambiente (100 milioni di euro come provvisionale) per omessa bonifica, avvelenamento della falda profonda e del territorio, e del fiume Bormida, né il danno alla salute dei cittadini.
Aggiungiamo, a tragico corollario, la superficialità della classe politica alessandrina che si occupa, giustamente, del “Registro Tumori” senza rendersi però conto che esso è solo una parte dell’ “Indagine epidemiologica”, dunque uno strumento monco, insufficiente. Così come sarebbe monca una indagine epidemiologica limitata al solo Comune di Alessandria (che comunque non c’è). Quando finalmente i Comuni della Fraschetta si faranno carico (soldi alla mano, non chiacchiere) delle dettagliate proposte, che tutti hanno ricevuto da Medicina democratica, per una Indagine epidemiologica della Fraschetta, sarà sempre tardi. Sarà sempre tardi quando si muoverà l’assessore del Comune capoluogo, che abbiamo investito del compito di raccordo intercomunale.
Barbara Tartaglione
Responsabile della sezione provinciale di Alessandria di Medicina democratica Movimento di lotta per la salute