«Per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell’arte drammatica e teatrale», Luigi Pirandello veniva nel 1934 insignito del Premio Nobel per la Letteratura. Aveva, a quel punto della sua vita, pubblicato tutti i suoi romanzi (sette in totale, i piú noti certamente “Il fu Mattia Pascal” e “Uno, nessuno e centomila” seguiti in quanto a fama dai “Quaderni di Serafino Gubbio Operatore”) e quasi tutte le sue novelle (raccolte tutte nei quindici volumi di “Novelle per un anno”, di cui mancavano allora solo gli ultimi due); anche la produzione teatrale era in un certo senso già tutta compiuta, come si vedrà a breve. Cosí, anche senza considerare la produzione poetica – del tutto assente dall’ultima fase della vita –, si può dire che il Premio sia giunto a un Pirandello che quasi tutto aveva compiuto: come il coronamento di tutta una carriera, la motivazione del Nobel riassume dunque in certo senso tutta l’opera del grande Autore.
Per quanto riguarda il Teatro – tutto compreso nel grande nome delle “Maschere Nude” –, si riconoscono normalmente nella produzione pirandelliana tre grandi fasi piú una: quella del Teatro Siciliano (1910-1916), quella del Teatro Umoristico (1917-1920), quella del Teatro nel Teatro (1921-1931), e quella del Teatro dei Miti (inscrivibile fra il 1926 e il 1933, e comprendente tre drammi di cui uno incompiuto). Si noterà facilmente come una simile categorizzazione sia da un lato banalizzante – quasi da riassuntino per lo studente svogliato – ma dall’altro utile a leggere nell’opera di Luigi Pirandello una progressiva trasformazione dell’idea che informa il dramma teatrale.
Nella prima fase uno degli scopi è quello di aderire per quanto possibile alla realtà e da ciò discende la scelta d’impiegare il Siciliano, vissuto come piú vivo rispetto all’Italiano. Nella seconda (alla quale appartengono alcuni dei titoli piú straordinarî della nostra Tradizione, fra cui è da citare almeno “Cosí è (se vi pare)”) si nota maggiormente l’impronta decadentista sopra la base verista che aveva caratterizzato la prima, e il relativismo s’impone a mostrare la fragilità del convenzionale mondo borghese e la presenza del volto dietro la maschera. La terza è forse la piú famosa e quella che con maggior immediatezza si lega nell’immaginario al suo Autore, e comprende “Enrico IV” e quella che a sua volta è definita “la Trilogia del Teatro nel Teatro” (“Sei personaggi in cerca d’autore”, “Questa sera si recita a soggetto”, “Ciascuno a suo modo”).
La cosiddetta ‘quarta fase’ è l’unica a non potersi incastrare per bene nella serie cronologica suesposta, e inoltre può non sembrare – a una prima vista – inscriversi direttamente nella serie evolutiva del pensiero filosofico e drammaturgico del suo Autore. Si tratta come detto di soli tre drammi, che peraltro s’integrano in una sorta di trilogia: “La colonia” rappresenta il mito sociale, “Lazzaro” quello religioso, “I giganti della montagna” il mito dell’Arte. Le tre opere sono come la narrazione di miracoli, quasi sacre rappresentazioni al limite del favolistico: sono per Pirandello ciò che è “Il Flauto Magico” per Mozart o “La fanciulla senz’ombra” per Strauss e magari “Parsifal” per Wagner.
In particolare “I giganti della montagna” sono un’opera sfuggente, incompiuta e quasi irrappresentabile, ma al contempo potente e memorabile. Magica, grandissima, unica.
In parte ricostruito grazie alla testimonianza del figlio Stefano Pirandello, l’ultimo atto in effetti non esiste: anche se per noi, lettori postumi, è come se si rappresentasse proprio nel silenzio della pagina monca.
Steso nel 1933, il testo di “I giganti della montagna” era stato concepito una decina d’anni prima. In quel periodo la moglie era da poco stata rinchiusa in manicomio e Luigi Pirandello assaporava il pieno consolidarsi del suo primo successo, mentre girava il mondo facendo base su Roma in una graziosa villa non distante da casa mia.