di Bruno Soro
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Nazioni, isole luoghi divengono per me vivi solo quando incontro un uomo che ne è originario. Ma a quel punto la loro vita diviene in me assolutamente inquietante, come se io stesso fossi originario di quel posto.
Elias Canetti, La provincia dell’uomo. Quaderni di appunti 1942-1972, Bompiani, Milano 1986
Mornese, recita la voce su Wikipedia, è un grazioso paesino situato “nelle estreme propaggini collinari dell’Alto Monferrato”. Sovrastato dal castello medievale della famiglia genovese dei marchesi Doria e dalla chiesa parrocchiale originariamente dedicata a S. Nicola da Tolentino e poi a S. Silvestro, il paese deve gran parte della sua odierna notorietà alla co-fondatrice dell’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, Santa Maria Domenica Mazzarello, primogenita di tredici figli, che ha visto la luce nella piccola frazione dei Mazzarelli («Masei» nel dialetto del luogo) il 9 maggio 1837 (1). Adagiato su una collina con alle spalle il Monte Tobbio, Mornese gode ad est della vista del Forte di Gavi, ad ovest quella sul Monviso e a nord quella sulla cornice delle Alpi.
Devo riconoscere che, essendo originario di Tassarolo, sulle colline del Gavi, la notorietà di Mornese mi fa una certa invidia. Tassarolo, infatti, peraltro erroneamente indicato dal grande storico dei fatti economici Carlo M. Cipolla (1922-2000) come “Tessarolo” (ma potrebbe essere solo un errore di stampa), viene citato, non tanto per il castello dei Marchesi Spinola, quanto per la sua seicentesca zecca, messa su dai genovesi per battere i “luigini” in occasione di “una delle più grandi truffe perpetrate nella storia economica europea”. (2)
«Masei» è il toponimo attribuito a tre piccoli insediamenti, «Mazzarelli di qua», «Mazzarelli di mezzo» e «Mazzarelli di là», con riguardo al “cognome comune a più famiglie che li abitano”. Da qualche anno a questa parte, i «Masei» hanno goduto di un ulteriore autorevole apprezzamento: l’aver dato i natali anche a Don Luigi Mazzarello, quello “strano prete”, “intelligente, affascinante e dal passato turbolento”, che nel 2012, per avere salvato la vita a due famiglie di ebrei, è stato insignito dallo Yad Vashem di Gerusalemme del titolo di “Giusto tra le nazioni”. L’intera vicenda, della quale ometto molti particolari per non compromettere il piacere della lettura, è raccontata nell’affascinante romanzo di Paolo Mazzarello, Quattro ore nelle tenebre, la cui lettura scorre veloce come se fosse un giallo.
Nato a Mornese il 30 maggio 1955, Paolo Mazzarello è professore di Storia della medicina nell’Università di Pavia. Oltre a vantare un curriculum scientifico di tutto rispetto, egli è anche autore di altri pregevoli libri, tra i quali ci piace ricordare, unicamente perché abbiamo avuto il piacere di assistere alla loro presentazione, Il genio e l’alienista. La strana visita di Lombroso a Tolstoj, Il professore e la cantante. La grande storia d’amore di Alessandro Volta, e il recente E si salvò anche la madre. L’evento che rivoluzionò il parto cesareo (3).
Del romanzo appena uscito riferirò solo qualche accenno alle figure dei protagonisti, al solo scopo di incuriosire il lettore in merito alle storie in esso raccontate.
Nato il 13 settembre 1885, don Luigi Mazzarello, quintogenito di Giuseppe Luigi e di Angela Lerma, “era venuto al mondo in una povera famiglia dei Mazzarelli”. Ordinato sacerdote il 12 agosto 1913, dopo un breve incarico come viceparroco in provincia di Asti, “nel 1926 gli fu proposto (o forse imposto) l’incarico di cappellano di bordo per l’emigrazione sui bastimenti della compagnia Navigazione generale italiana e dal 1932, della società Italia flotte riunite”. “Elegantissimo nella sua divisa da cappellano della nave, don Luigi era una figura ricercata e conosciuta (…). Per chi era nato nel medioevo come lui – perché così doveva apparire la frazione dei Mazzarelli nell’Ottocento –, avere di fronte il mondo costituiva un’esperienza sconvolgente”. Sbarcato dal servizio sulle navi, e dopo un breve soggiorno a Ginevra in qualità di “consigliere coadiutore delle autorità consolari della Missione cattolica”, al suo ritorno in Piemonte, gli venne chiesta dal vescovo della diocesi di Acqui Terme “la disponibilità a ritirarsi a nove chilometri di distanza dai Mazzarelli nell’isolato santuario della Rocchetta”: un edificio “piuttosto malandato e bisognoso di restauri e riparazioni” che l’operosità di don Luigi ha trasformato in una piccola comunità stretta attorno alla sua persona.
In quella piccola comunità, divenuta ben presto “una grande famiglia” di undici persone, trovarono infatti ospitalità: i) il finanziere ed agente di borsa genovese Enrico Levi e la di lui consorte Lisa Vita Finzi, i quali si trasferirono precipitosamente alla Rocchetta lasciando la loro tenuta dei Martinenghi, situata a pochi chilometri di distanza, divenuta non più sicura (4); ii) l’ingegnere Gastone Soria con la sorella Valentina, amici dei Levi, che nel frattempo don Luigi aveva provveduto a sistemare “in una casa dei Mazzarelli”; iii) il piccolo Luigi Mazzarello, “nipote della perpetua Maria”, sorella di don Luigi; iv) Elena Brunetti, una giovane “insegnante e direttrice d’asilo di Borzoli, un sobborgo di Genova”, la quale nell’agosto del 1942, essendo rimasta vedova del nipote di don Luigi, caduto “a Tobruk durante un bombardamento aereo e navale” e dopo aver dato alla luce la piccola Graziella si trasferì alla Rocchetta; v) il campanaro Tomaso Sobrero, detto “Mascìllu”, con la moglie Maria Agosto, detta “Main”.
Rocambolesco è il racconto di come il “Giusto tra le nazioni” sia riuscito a nascondere, “protetti dal bozzolo che don Luigi aveva steso attorno a loro”, le due famiglie di ebrei in occasione delle due perquisizioni effettuate dai fascisti nel santuario della Rocchetta. Nella prima, avvenuta nella primavera del 1944 ad opera “di una dozzina di giovani piuttosto esagitati, comandati da un graduato”, don Luigi, “con molta presenza di spirito e senza farsi prendere dal panico”, le ha fatte scendere nella “cripta degli Spinola”, una “stanza lugubre, rischiarata debolmente dalla luce che filtrava attraverso una finestra”, alla quale si accedeva da un passaggio segreto, e dalla quale, dopo che i militi se ne furono andati, i quattro ospiti “uscirono ‘distrutti e piangenti’, ma salvi”.
La seconda, ad opera di una squadraccia fascista composta da “militi giovani, piuttosto irascibili e collerici, che ostentavano la spavalderia di chi si sente padrone del mondo”, avvenne nell’estate di quello stesso anno, quando “la paura serpeggiava e alla Rocchetta si erano fatti più cauti e circospetti”. Dopo quattro ore vissute nelle tenebre, tanto si protrasse la permanenza dei militi alla Rocchetta, “i Levi ed i Soria”, sistemati all’interno dei “loculi delle tombe nel sotterraneo della chiesa” e adagiati “sopra una coperta, con i marmi bianchi appoggiati alla struttura per nasconderli”, poterono finalmente “tornare alla vita”.
Tra una perquisizione e l’altra, si è poi consumata la vicenda degli “sbandati della montagna”. Un paio di episodi di guerriglia, perpetrati da gruppi di ribelli ai danni di esponenti locali del Fascio repubblicano, rafforzarono nel comando tedesco “il proposito di sbarazzarsi definitivamente delle forze partigiane dislocate attorno al Tobbio”.
Tali episodi, unitamente alla “disorganizzazione che imperava nelle montagne e sulla situazione paradossale di una forza (partigiana) che si indeboliva a mano a mano che aumentava i propri effettivi”, per via dell’afflusso “dei renitenti alla leva – o arruolati che avevano subito disertato -, poco più che ragazzi del tutto impreparati”, hanno creato le condizioni per quello che è passato alla storia come una delle pagine forse più fosche della Resistenza: l’eccidio della Benedicta.
Agghiacciante è il racconto di ciò che accadde “la mattina del 6 aprile”, quando ebbe inizio “una imponente operazione militare” risoltasi in una giornata di massacri, e descritta da don Luigi, al suo “ritorno alla Rocchetta per il rito del Giovedì santo”, con poche semplici parole: “È un macello”. Tuttavia, come documenta Paolo Mazzarello nel capitolo “Benedicta, Maledicta”, il più crudo del libro, il “macello più spaventoso doveva ancora avvenire”.
“Con la liberazione – scrive Mazzarello nell’Epilogo – tutto cambiò alla Rocchetta. Gigino, dopo avere terminato la terza elementare a Lerma, rientrò a Borzoli. Nel santuario rimasero don Luigi, Elena Brunetti – che continuò ad assentarsi di giorno a causa del lavoro di direttrice d’asilo -, sua figlia Graziella, Main e Mascìllu”. I Soria e i Levi tornarono a Genova, dove Enrico morì nel 1952 all’età di settantatré anni, mentre “la moglie Lisa gli sopravvisse fino al giugno 1965”. (…) Nel 1959 don Luigi Mazzarello “si ammalò di una malattia epatica e morì in pace con sé stesso il 26 ottobre, a settantaquattro anni.” (…) “Poi, lentamente scese l’oblio sulla sua figura e su quanto aveva fatto.” (…) “Don Luigi ‘riposa’ a Mornese, come è scritto nella lapide tombale del piccolo cimitero. Un augurio che in realtà gli si addice poco, perché, in nessun istante della sua vita, fu mai uomo ‘portato a riposarsi’”.
(1) La Santa Maria Domenica Mazzarello appartiene a quel “folto gruppo di Santi Sociali vissuti in Piemonte nel 1800, realizzatori di opere che non si sono esaurite in quel secolo: Giuseppe Cafasso, Giuseppe Benedetto Cottolengo, Giovanni Bosco, Giuseppe Allamano, Maria Domenica Mazzarello, Luigi Orione, Francesco Faà di Bruno”. Le informazioni su Mornese, i Mazzarelli e la Santa Maria Domenica Mazzarello sono tratte dal sito http://www.mornese.org
(2) C.M. Cipolla, Tre storie extravaganti (il Mulino, Bologna 1994), pag. 60.
(3) I tre libri citati nel testo sono tutti editi da Bollati Boringhieri, Torino, rispettivamente nel 2005, nel 2009 e nel 2015.
(4) I coniugi Enrico Levi e Lisa Vita Finzi vivevano a Genova, dove Enrico, seguendo “la tradizione finanziaria della famiglia” esercitava la professione di agente di cambio. La moglie Lisa Vita Finzi, più giovane di undici anni, apparteneva “a un’antica famiglia ebraica ferrarese”. I Levi “possedevano un palazzo di campagna, quasi un piccolo castello, in località Martinenghi, lungo la strada che unisce Castelletto d’Orba a Lerma. Alle vicende della famiglia Levi, attorno alle quali ruota l’intero romanzo, nonché alla storia della tenuta Martinenghi, Paolo Mazzarello dedica pagine accattivanti.