Alla vigilia di Natale, festività in cui il vino defluisce in abbondanza (nell’organismo), parlerò invece dell’acqua che scorre, in relazione a luoghi (città, paesi o semplici località) dove il senso del magico e gli eventi di frontiera sono di casa. Pensiamo allora a Torino, bagnata in sincrono dal Po e dalla Dora; Pavia, la stessa Roma capitale, Palermo, Lione, Selinunte e quante altre ancora, per arrivare a quella che conosco meglio per motivi anagrafici, leggi Alessandria.
Sono Zone dove l’occulto e gli eventi desueti autentici vengono custoditi gelosamente in certi armadi. Luoghi segnati da un simbolismo magico così evidente e così tante volte raccontato che non è il caso che mi dilunghi.
Però vorrei tornare all’amata Liguria citando due borghi che grondano magia e “segreti”: parlo di Molini di Triora e della sovrastante Triora, in valle Argentina sopra Sanremo, attraversate dal torrente fresco e impetuoso che regala il suo nome alla valle.
Qui la cultura stregonesca “al femminile” ne ha fatto capitali di un sommesso turismo esoterico che negli ultimi anni ha visto accrescersi le iniziative tra convegni, narrativa “triorasca” e festival in tema. Ovvio che sul termine “strega”, qui chiamata “bàgiua”, bisogna intendersi. Lo starter del tutto è l’antica vicenda persecutoria contro le presunte ancelle del Diavolo che in realtà qui durò solo due anni, dal 1587 al 1589.
Il computo delle vittime non fu basso: quando le accusate ancora in vita attendevano una risposta da Roma, si contavano nove donne morte nei tormenti e nelle prigioni improvvisate di Badalucco e Triora e cinque nelle carceri genovesi, su trentatré processate. Delle truci vicende di quell’epoca è rimasta ancora oggi nella memoria collettiva delle donne di Molini e di Triora una integra eredità culturale fatta di conoscenze delle virtù terapeutiche delle piante medicinali, utilizzate spesso e volentieri come ingredienti per squisite leccornie. Sono queste le “streghe” contemporanee della valle: guaritrici, erboriste, ma con poteri in più (uno per tutti, la possibilità di separare il corpo astrale dalla sua fisica prigione) che le avvicinano agli sciamani e ai curanderos dell’America Latina.
Alla Cabotina, alla fine degli affascinanti vicoli di Triora ritenuto nel XVI° secolo il luogo d’incontro delle seguaci di Satana, si respira ancora un po’ dell’aria leggendaria e vagamente blasfema del “volo delle streghe”.
Da qui si diceva che le donne si librassero nottetempo nell’aria per raggiungere il versante opposto della valle, oppure che lanciassero le loro tenere vittime (in genere pargoli rapiti con l’inganno) giù nell’abisso, sghignazzando turpemente alle grida degli innocenti.
Per un curioso caso d’assonanza quasi sincronica, poco lontano da Triora, al Ponte di Loreto, ponte sospeso tra i più alti d’Europa, si pratica il Bungee Jumping, lo spericolato e rabbrividente salto con l’elastico nel vuoto, un luogo anche sinistro dal quale non pochi hanno deciso di fare l’ultimo salto. Ebbene, qui l’acqua domina. L’Argentina corre e “chiama”. L’onda energetica è enorme, lo assicuro. Non c’è stata volta che io mi sia recato a Triora che non abbia avvertito le viscere contrarmi semplicemente per avere soggiornato in un albergo sotto il quale scorre l’acqua del torrente. I “punti” di riunione delle “bàgiue” lungo il corso torrentizio sono innumerevoli. Come molte sono state, e sono, le apparizioni di entità “acquatiche” in tutta la valle. Persino fantasmi, o quelli che si dicono tali, di persone annegate.
Al proposito, voglio citare brevemente un’esperienza dell’amico Gian Maria Panizza, da lui riportata in forma narrativa nel libro Le tre bocche del Drago:
“A un certo punto una discesa, una radura fra gli alberi soffocati dall’edera e dalla vitalba, e nel silenzio lo scrosciare del torrente, sempre più vicino. Il sentiero valicava un piccolo ponte medievale, poi si perdeva dopo pochi metri in un viluppo inestricabile di rovi. Accanto al ponte si poteva scendere, fra alcuni enormi massi, verso l’acqua: mi calai giù scivolando e sbucciandomi i palmi delle mani, e all’improvviso mi trovai davanti un laghetto circolare, di un verde intenso, sepolto fra la vegetazione e le ripide pareti di roccia. Il sole spuntò da una nuvola, un soffio di vento fece rabbrividire la superficie dell’acqua e io decisi all’improvviso che avrei fatto il bagno, asciugandomi sopra una roccia. Non avevo portato il costume, ma non c’era anima viva intorno, pensai, non correvo certo il rischio di dare scandalo. Così mi spogliai e mi buttai nell’acqua. Fu come ricevere una pugnalata nel petto. L’acqua non era fredda: si trattava di puro ghiaccio, e in un istante di assoluto terrore un pensiero mi lampeggiò nel cervello: non ce la faccio ad arrivare dall’altra parte, l’acqua scura mi tira giù, resterò sul fondo e nessuno mi troverà mai, ma mi stavo già arrampicando, intirizzito, sulla grande roccia dall’altra parte, dove restai disteso a lungo, battendo i denti in pieno sole, il cuore che mi saltava in gola, i muscoli delle gambe irrigiditi in crampi dolorosi.
Dopo un po’ cominciai a sentirmi meglio. Osservavo, disteso sulla pietra calda, il volo capriccioso di due libellule blu che s’inseguivano a fior d’acqua, e sullo sfondo la massa di vegetazione che strapiombava nel lago. Qualcosa di chiaro spiccava sul verde. Si muoveva. Mi tirai su a sedere. Accidenti, pensai, ecco, arriva qualcuno, sono nudo e i vestiti sono dall’altra parte dell’acqua…
Era un ragazzo, forse di quindici o sedici anni, che scendeva giù lungo il sentiero. Arrivato sul ponte, si fermò a contemplarmi, appoggiato al parapetto, poi alzò un braccio indicando il cielo, e mi gridò Tra un po’ piove!
Guardai lo squarcio di cielo perfettamente blu a picco sulle pareti di roccia che mi circondavano e pensai: Ecco lo scemo del villaggio. Ma quale pioggia?
Adesso lo vedevo in piedi sulla riva. Da dove era sceso così in fretta? Portava un paio di brache di panno scuro, tutte impolverate, e una camicia un po’ frusta macchiata di scuro – sembrava terra, fango – ed era a piedi nudi. E mi fissava. Mi alzai e mi guardai attorno, cercando una via per tornare al ponte. Non avevo nessuna intenzione di ributtarmi in quell’acqua buia, gelata e profonda. Di là! gridò il ragazzo, indicando un masso tutto venato di rosso scuro.
In effetti, facendo un giro tortuoso riuscii a riguadagnare i miei vestiti, m’infilai le scarpe, presi lo zaino e risalii sul ponte. Come ti chiami?, chiesi al silenzioso osservatore. Invece di rispondermi, mi voltò le spalle e si avviò lungo il sentiero. Lo seguii: era comunque ora di tornare, doveva essere già quasi mezzogiorno. Tentai ancora: Sei di Triora?, e stavolta rispose, girandosi a guardarmi senza fermarsi. Io sono sempre qui.
Facevo fatica a seguirlo. Guardavo stupito i suoi piedi scalzi, bianchi, certo non da montanaro o da contadino, meravigliandomi che non presentassero né calli né graffi. Andava leggero e veloce: sembrava che non toccasse terra. Fatto sta, che ci crediate o no, a metà del cammino il sole scomparve, prese a soffiare un vento freddo e minacciose nubi nere si ammassarono nel cielo. In vista di Triora scoppiò un tuono formidabile, che rimbombò echeggiando nella vallata, e caddero le prime, grosse gocce di pioggia. Arrivai all’albergo tutto fradicio.
Mentre correvo sotto la pioggia battente, d’un tratto mi accorsi che il ragazzo non mi precedeva più: l’avevo perso di vista, magari abitava in una delle prime case del paese. Sostai sotto un grande tiglio e mi voltai a guardare la strada: nessuno. Gli alberi si piegavano sotto le raffiche di vento, la ghiaia luccicava di pozzanghere e rivoli d’acqua.”
Ed ecco la conclusione del racconto che spiega il mistero dell’incontro:
“Mancava ancora qualcosa. Un debito andava pagato: sapevo che avrei dovuto tornare a Triora, e ci ritornai a novembre, quando nella vallata tutti i boschi sono gialli, qua e là si accendono le fiammate scarlatte del sommacco, e sui prati fradici, al mattino, si trovano cerchi di funghi nerastri spuntati durante la notte, che la gente chiama e trumbette di morti.
Un vento gelido soffiava sotto il cielo grigio quando raggiunsi il ponte di Mauta. Dovunque volavano turbinando le foglie secche, e i giunchi erano avvizziti. L’acqua del laghetto posava nera e immobile fra le grevi rocce. Mi sedetti, alzando il bavero della giacca a vento, e pensai a Roberto io sono sempre qui, aveva detto Ma Roberto non c’era, non c’era nessuno, l’acqua giaceva gelida, le foglie cadevano frusciando. Mi alzai per andarmene, per tornare indietro, e fu allora che una ventata scostò l’edera dalle rocce davanti al ponte, sotto gli antichi castagni contorti, e vidi la lapide incastrata nella pietra:
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A ROBERTO MORALDO
DI ANNI 17
DA CADUTA MORTALE
DECEDEVA IL 14. 9. 1927
I GENITORI E PARENTI
INCONSOLABILI
POSERO
Questo è un episodio vero, una testimonianza raccolta direttamente. E la succitata lapide è lì a attestarlo, proprio sotto il ponte di Mauta. L’acqua – Dark Water – ha poteri straordinari, a volte al di là dell’accettabile. Da molti anni però il confine è stato travalicato. L’acqua, purtroppo per noi, è straordinariamente incazzata.