Pàrtagas [Lo Straniero]

Marenzana 2di Angelo Marenzana

 
Pàrtagas è in libreria, pronto per il fiocco natalizio. Il nuovo impegno di Gianluca D’Aquino (dato recentemente alle stampe da Eden Editori e presentato venerdì scorso presso la libreria Mondadori da Danilo Arona), si presenta come romanzo di guerra, scritto utilizzando la struttura tipica del genere fantasy.

La trama rientra nei canoni: Pàrtagas, un mondo immaginario, un’entità territoriale concepita e divisa in stati teocratici in cui la politica si fonde o soggiace alle presunte imposizioni delle regole divine. Sono nove i regni che conformano la geografia territoriale di Pàrtagas, cui si aggiunge un decimo territorio, Le Terre di Nessuno, abitato da popolazioni nomadi e in cui si muove da esule il protagonista, il principe Kjartan, legittimo erede al trono di Grossburg ma in totale disaccordo con le scelte politiche del padre re Halldòr. Poi succede che anche a Pàrtagas brilla il desiderio di espansione territoriale e così lisimaco Jihad, autoproclamatosi reggente pro-tempore del regno di Grossburg con la morte del re, vuole imporre i principi della propria visione religiosa. Ovvero la fede monoteista lisimaca.

Ma ciò che il romanzo evoca non è solo l’idea cavalleresca d’ambientazione partagas-di-gianluca-daquino_optmedioevale con il suo carico di amicizia, passioni, intrighi e tradimenti. E l’autore ne è ben consapevole.

Pàrtagas evoca immagini e qualche (dura) riflessione. Le prime, sono quelle stesse rubate agli scenari di guerra che spaziano sulle nostre televisioni o che fanno il giro del mondo su internet. Perché Pàrtagas si fa specchio di una società globalizzata e intrisa di potere economico e religioso capace di trasformare il pianeta in un enorme quanto crudele campo di battaglia che ci riporta indietro di secoli.

A questo punto mi concedo alcune mie riflessioni.

Appartengo a una generazione che non ha vissuto guerre. Le ferite fresche dei due conflitti mondiali le ho conosciute nemmeno tanto sui libri di scuola, quanto piuttosto attraverso il ricordo di amici e parenti così come spesso mi capita di dire  uomo-temporalipresentando il mio romanzo L’uomo dei temporali. Poi è arrivata la guerra del Vietnam, carica di forti tensioni ideologiche e libertarie. Erano tornati in scena Davide e Golia e sembrava semplice distinguere il buono dal cattivo. Gli anni degli studi universitari mi hanno illuso che allargare la conoscenza a sempre maggiori strati sociali e lo svelare cause e falsità che sostengono lo scoppio di una guerra, fosse sufficiente perché non ci si ritrovasse a vivere e riproporre un dramma di simile portata.

Semplificando (molto), la guerra era vista come arroganza, prevaricazione e strumento tampone per riempire i granai e rivitalizzare l’economia alla faccia degli strati più deboli di una società. Oppure come esplosione di tensioni interne ai singoli stati, maneggi di servizi segreti, speculazioni finanziarie e allo stesso tempo manifestazione di principi ideologici di stampo razzista. Si salvavano nel mucchio solo le cosiddette guerre di liberazione.

Quindici anni dopo la fine del conflitto vietnamita una nuova illusione: con la riappacificazione Iran-Iraq (costata in 8 anni di conflitto quasi un milione di morti), la paura atomica, il non voler vedere il sangue versato in tutta l’Africa causato da guerre combattute dagli africani stessi in nome di interessi delle superpotenze, oltre alla caduta del muro di Berlino, ecco la grande conquista tanto anelata e strombazzata ai quattro venti: le armi sarebbero finite in soffitta.

Ma dietro il sipario di inganni e ipocrisia si preparava la Grande Svolta.

Meno di tre anni dopo, quel famoso 28 febbraio del 1991 con le bandierine alle spalle di Emilio Fede e una pioggia di bomba che ricordavano più un videogioco, il mondo intero (nessuno escluso) imboccava il drammatico percorso che oggi ci vede coinvolti in prima persona. Le guerre si sono evolute.
Non solo nell’armamento ma anche nello sviluppo degli intrighi di palazzo. Ci stiamo lasciando alle spalle le storiche guerre di invasione o le più antiche trincee per entrare nel perimetro delle guerre invisibili. Guerre mai dichiarate. Nessuna consegna nelle mani della diplomazia avversaria del protocollo di stato di guerra.

Chi, oggi, è in grado di dare una spiegazione più o meno storicamente logica su quanto sta accadendo? Chi i buoni e chi i cattivi? Con i ribelli peggio dei tiranni? A tutto questo si aggiunge un’informazione che non è grado di aiutare la comprensione. Pur tempestati da notizie e commenti senza fine e in tempo reale, la verità non riesce ad emergere. L’informazione di massa si fa sempre più superficiale, infida, servile e patetica. Capace solo di tracciare il solco di un potentato che ci sta conducendo alla rovina.

A tutto questo si aggiunge il principio religioso come strumento di sopraffazione. Certo lo è stato anche in passato, ma, nella maggior parte dei casi, serviva a guidare eserciti regolari. Oggi gli eserciti sono invisibili. Senza divisa oppure formati da benefattori portatori di democrazia.
La complessità, come mai forse prima di oggi, è il perimetro all’interno del quale si consumano conflitti carichi di una crudeltà che pensavamo di esserci lasciati, come civiltà, alle spalle e con un coinvolgimento di civili che riporta alle immagini del nostro medioevo più oscuro. Senza dimenticarci di sigle terroristiche che nascono e si mutano all’interno del mondo islamico dove alcune frange abbracciano l’idea di morte come unico elemento di confronto tra loro e il resto dell’umanità. Il nostro pianeta sembra ormai sprofondare in campi di battaglia molli di sangue scarlatto e con le grandi pianure desertiche ricoperte da cadaveri. Come se, proprio in forma di fantasy, noi dovessimo fare i conti con destini già scritti.

Mentre scrivo, si sommano altri due episodi gravi che portano altri elementi di complessità. L’attentato all’ambasciatore russo ad Ankara (la morte di un diplomatico non ha mai portato bene, fin dai tempi di Attilio Regolo la cui morte è stata prologo alla distruzione di Cartagine) e, in concomitanza la strage di Berlino, gettano ulteriori ombre su un mondo già avvolto dalle tenebre.

Per chiudere, rubo dalle pagine di Pàrtagas un concetto prevalentemente ateo espresso dal principe Kjartan grazie al quale è possibile riportare un raggio di luce nella verità. La volontà umana prescinde dal volere divino. L’uomo non si dà forza nelle sue imprese nel nome di un dio più grande di un altro ma per scelta propria.
Per volontà, ingordigia o ricerca di giustizia.