Previsioni e non sondaggi, per favore!
Dato che ormai la sola parola “sondaggio” provoca un senso di ribrezzo, dopo le ripetute brutte figure fatte ultimamente dai sondaggisti professionali, ho imparato ad affidarmi nei giudizi sulle probabili previsioni future a gente che ha avuto esperienza pluridecennale di soggiorno in paesi stranieri, di contatti stretti con il mondo internazionale dei produttori, quelli veri, non quelli che si travestono da guru della finanza e sono abituati a vendere specchietti per le allodole.
Fallite tutte le rivoluzioni del Novecento, nelle quali abbiamo creduto e combattuto, adesso dobbiamo affrontare altre rivoluzioni, volenti o nolenti, che si chiamano “rivoluzione digitale” e “globalizzazione”.
La rivoluzione industriale di fine Ottocento – inizio Novecento, insieme all’industria moderna che aveva messo in un cantone l’artigianato ed imposto nuovi ritmi sia di lavoro che di pensiero, ci aveva regalato le strade ferrate, il telegrafo prima e poi la radio, l’elettricità diffusa anche nelle nostre campagne, i primi bagliori di quello che poi sarebbe stato l’avvento della moda e del consumismo. Anche se i ricchi ed i possidenti di allora controllavano il 90% del prodotto interno lordo e la maggioranza dei cittadini solo il restante 10%, questi ultimi cercavano a poco a poco di conquistare il diritto ad utilizzare e quindi a consumare qualche fettina in più della torta.
Dopo cento anni di lotte e di illusioni tradite, ci troviamo adesso tra capo e collo il rischio di tornare al punto di partenza, con una importante differenza, però.
Mentre prima, per decenni e fino più o meno agli anni Settanta, quel 90% di ricchezza era concentrata nella produzione (complessivamente intesa fra agricola e industriale) e sul commercio, che si era sempre più esteso scaricando i suoi benefici effetti anche sulle masse, mentre solo il 10% o poco più, secondo le rilevazioni statistiche degli economisti dell’epoca, era in mano alla speculazione finanziaria, dagli anni Novanta le proporzioni si sono invertite. Oggi il 90% è controllato dalla speculazione e soltanto il 10% dai produttori e dai commercianti. Il mondo economico è in mano agli squali della finanza ci dice chi è abituato tutti i giorni a lottare.
Per di più, mentre una volta il produttore aveva interesse che la produzione non subisse arresti, dovuti a scioperi dei lavoratori, per non perdere le occasioni di sviluppo che il mercato gli forniva, adesso lo stesso produttore resta quasi indifferente alla minaccia delle organizzazioni sindacali, dato che lo sciopero è solo un’arma spuntata. Un giorno o due di sciopero per un lavoratore sono un danno, mentre per il datore di lavoro solo un momento di respiro nei costi.
La globalizzazione preme sul collo sia del produttore che del lavoratore, per cui l’interesse conflittuale è molto relativo. Il nemico della classe operaia si affaccia e si dilegua con mosse repentine e non è più lì come un tempo con il bastone in mano ed i cilindro in testa con le fattezze del “padrone” di una volta. Magari avesse ancora la figura romantica del senatore Borsalino!
Adesso non ha neppure più un volto, ma l’aspetto di un fantasma che volteggia sulle teste sia dell’industriale, dell’agricoltore, del commerciante, dell’artigiano, dell’operaio eccetera. Di tutti coloro che con quel misero 10% che gli resta di manovra, devono credere che lo “Stato” faccia ancora i loro interessi, mentre la politica non segue più il filo della logica economica. Se non è più tempo di filosofia economica marxista, come ai vecchi tempi, ma almeno che ci sia qualcuno che ci apra gli occhi sulle conseguenze del nostro correre verso una digitalizzazione esplosiva. Qualcuno che ci spieghi che i “fondamentali del gioco” sono più importanti della scena.
Luigi Timo – Castelceriolo