Curioso è il destino di Pascoli presso i lettori: si tratta di uno degli autori meno compresi dal pubblico, e in gran parte la causa di ciò non è nel pubblico ma in Pascoli stesso.
Si tratta di un poeta programmaticamente ambiguo, che in una forma sfacciatamente chiara – immediatamente orecchiata, coinvolgente, simile spesso nel sentimentalismo e nel ritmo a una nenia infantile – racchiude significati spesso sfuggenti. La poesia di Pascoli non dice, ma suggerisce: lavora per suggestioni e per accumulo di ricordi di sensazioni ed emozioni. Parla attraverso il suo ritmo cantato tanto quanto attraverso le parole che lo compongono: è come se le parole si appropriassero di volta in volta di una vecchia melodia, e il poeta lí disponendole ci chiedesse – mentre evoca immagini delle cose che cita con le singole espressioni – di ricordarci dove e quando abbiamo già sentito quella musica su cui lui va costruendo le sue parole.
Pascoli racconta di cose estremamente specifiche, giungendo a inserire inomi scientifici di specie vegetali e animali di cui tratta. Ma, se ci si fa prendere dal giuoco del ritmo, l’effetto è ineludibile: l’ipnosi della musica ci fa scendere al fondo dei ricordi antichi, e cosí il dettaglio dell’esperienza personalissima del Poeta si sovrappone al dettaglio della nostra. Nella vecchia melodia che Pascoli sembra volerci ricordare, l’esperienza emotiva del Poeta e quella del lettore si fondono in attimi di emozione totalizzanti.
Questa è grandezza e miseria di Giovanni Pascoli: perché è facile che una simile estetica venga scambiata per (o, in alcuni casi, sia proprio) sentimentalismo; ma è sentimentalismo di grana fine, classico e nitido, sempre gonfio di singhiozzo ma (quasi) mai sbavato da lacrimucce.
E tutto questo è il Pascoli che un lettore molto accorto e predisposto all’atto stesso della lettura e certo non digiuno di belle Lettere può aver conosciuto. Tutto bello e tutto vero. Ma drammaticamente parziale.
Sí: perché la Lingua del cuore di Pascoli, quella in cui piú schietta parla la sua voce ed in cui secondo alcuni avrebbe pronunciato le sue ultime parole sul letto di morte, era non l’Italiano ma il Latino. Per questo Pascoli si è condannato a una posterità sorda: perché non si può pretendere che il lettore medio tenga sul comodino un libro di poesie latine. Anche se è un peccato.
Il Latino di Pascoli è di per sé bellissimo, molto diverso dal Latino di Scuola. Si tratta di una Lingua viva, una Lingua parlata da un madrelingua che l’abbia assunta col primo latte.
Le bellezze eterne del cielo e quelle effimere di una portulaca sono descritte con sincerità disarmante e mestiere impeccabile in questi versi che sono probabilmente la prima produzione pascoliana per importanza, seguita da quelli italiani e dalle prose critiche.
C’è da dire che era cosa abbastanza diffusa fra i poeti fino ancora all’inizio del secolo scorso questo bilinguismo Italiano-Latino. Ma la produzione veramente poetica era tutta spostata (come appare naturale anche al nostro occhio) verso l’Italiano, e il Latino era piú che altro un bell’esercizio che dava di tanto in tanto eccellenti risultati ma nulla di piú.
In Pascoli, invece, non c’è alcun compiacimento tecnico nell’uso di tale Lingua; né vi si trova il gusto antiquario o bozzettistico di chi recuperi vecchi mezzi espressivi a scopo mimetico o addirittura per curiosità se non per satira; né c’è imitazione, se non quella virtuosa che è necessaria a qualsiasi forma d’Arte.
Alcuni biografi vogliono – e non c’è motivo per contraddirli – che Pascoli fosse sincero quando sosteneva che diverse poesie in Italiano gli fossero nate da uno spunto pensato in Latino e poi tradotto e elaborato. Certo è che la poesia pascoliana, col suo senso profondo della Lingua e del Linguaggio come forma intrinseca dell’emozione, ha la sua matrice nel Latino.
Il punto ora è: come fa un lettore volenteroso ad accostarsi a questa produzione, che per forza di cose è meno facile da frequentare rispetto alla piú nota sorella minore italofona?
L’unica soluzione percorribile che io trovi è questa: esistono traduzioni di molti di questi testi, stese per esempio da Manara Valgimigli o da Enzo Mandruzzato, molto belle anche se a volte necessariamente invadenti; si prendano i due testi, l’originale pascoliano e la versione italiana, e si cerchi di seguire progressivamente l’uno e l’altro fino a svincolarsi dalla traduzione e cogliere il senso poetico della poesia.
Ma si accettano altre proposte.