C’era questo strano, bizzarro e tenero locale milanese dalle parti di Porta Venezia e accadde che i Privilege nell’autunno del 1970 ci capitassero e per un po’ di tempo si fermassero. Era una balera ricavata da un cinema che avrebbe mandato in solluchero l‘Ettore Scola di Ballando ballando.
Il gruppo musicale di turno si posizionava nello spazio della galleria, privo di poltrone, e sovrastava dall’alto la platea trasformata in pista da ballo. Da qui partivano a destra e a sinistra due palchi laterali zeppi di tavolini intimi per 2 o 4 persone. Di solito i posti più ambiti, pure loro incombenti sulle teste dei ballerini più sotto.
Non ne sono certissimo, ma questo posto dovrebbe esistere ancora e, con le inevitabili modificazioni dovute al tempo, chiamarsi Sala Venezia, come leggiamo su Facebook, detta da tutti i milanesi “la balera di Porta Venezia”: « …si mangia, si beve e si balla pure spendendo poco: liscio, mazurke, ballo del mattone e balli di gruppo, tutto suonato sempre live dalle orchestrine che si alternano ogni settimana…».
Nel ’70 però l’alternanza delle “orchestrine” che si avvicendavano sopra quella galleria era un po’ diversa. La sera in cui esordimmo, dopo una serata di audizione condotta a sala rigorosamente vuota e con i soli gestori molto attenti a quel che usciva dagli amplificatori e dalle casse, ci venne detto: «L’ultimo complesso è stato con noi 25 anni. Dei grandi amici. Purtroppo due di loro sono morti il mese scorso.»
Avrete già capito che la situazione non era esattamente la nostra. I Privilege di quel momento – io, Rudi, Enzo, Gian Maria e Max – un po’ se la tiravano da gruppo pop all’avanguardia con un 45 giri all’attivo in stile progressive, il mitico California Joe. In quella balera avremmo dovuto suonare invece un po’ di tutto con una notevole limitazione per la nostra vera musica e un’inquietante apertura nei confronti dell’allora detto “liscio internazionale”. Ma tant’era perché l’audizione aveva funzionato alla grande e i gestori ci avevano offerto un “piccolo” periodo in prova di sei mesi. Non era il caso di fare gli schizzinosi: lì si suonava il giovedì sera, il sabato sera e la domenica pomeriggio e sera. Pagati a forfait piuttosto bene. Insomma, se non si vedevano prospettive di respiro nazionale, quanto meno si accantonava qualche liretta. Non male per chi come me frequentava l’università.
Già, non vi ho ancora detto il nome della balera…
Il fatto era che il locale non aveva un nome specifico. Perché semplicemente era la Sala ANCR. ANCR, acronimo per Associazione Nazionale Combattenti e Reduci. Qualche problema di immagine stava per piombarci sul groppone. Come potevamo presentarci in Alessandria a sbandierare ai quattro venti che suonavamo a Milano – che raccontata così in modo generico ci rendeva molto fighi – nella sala dei Combattenti e Reduci?
Sì, insomma, a suo modo era un problema. Poi qualcuno trovò la soluzione: «Basta dire che suoniamo all’ANCR. Non mentiamo se qualcuno viene a controllare le nostre affermazioni e lasci andare la parola così… come se fosse L’ancora in francese. L’Ancre, il locale meneghino più alla moda del momento. Ci sta!»
Come questa buffonata potesse stare in piedi e resistere indomita per circa tre mesi, sino a quando non firmammo un nuovo contratto per un posto molto più di tendenza e assai chic sul lago di Lugano defilandoci così dal periodo “di prova”, è un mistero che ancora oggi perdura. Le nostre risposte alla domanda dei nostri supporter alessandrini Dove suonate in questo periodo, ragazzi? erano sempre inossidabili e strascicate con accento francese: «A Milano, all’Ancre, posto fighissimo con manze di prima classe», sperando che a nessuno venisse in mente di venirci a sentire, perché in quel caso erano pronte delle contromisure del tipo: «L’Ancre è carissima, amici, e bisogna prenotare con mesi e mesi di anticipo.»
Comunque in quei tre mesi ci divertimmo alla grande perché lo spazio per il rock era alla fine generoso e perché, lo affermo con assoluta nostalgia, un posto così non l’avevamo mai visto. Ai tavoli dei palchetti laterali, vogliate credermi, vedemmo sempre – tanto al giovedì che nel week-end – le stesse persone compiere quel rituale di frequentazione per quattro volte la settimana (appunto, ci stava il matinée la domenica pomeriggio). Chi mi colpì di più, soprattutto perché si sedevano sempre al tavolo alla mia immediata sinistra, fu una coppia di madre e figlia, due femmine che in terra mandrogna si sarebbero guadagnate l’appellativo di “quadri antichi”, pettinate e agghindate in modo quasi conforme che tra loro non parlavano mai e ogni tanto lanciavano lo sguardo in basso oltre la balaustra. Perché laggiù in platea circolavano i gadani, ballerini, che frequentavano il posto anche per rimorchiare. Solo che per farlo dovevano alzare lo sguardo, accontentarsi di una visione men che parziale della vittima prescelta e dal basso rivolgere l’invito che poteva essere espresso soltanto a gesti un po’ scimmieschi (capita la citazione di Scola all’inizio?). La giovane, un po’ me la ricordo, per quanto “antica” era proprio bella e dalla platea le giungevano parecchi inviti quando attaccavamo la quartina dei “lenti”. Lei però non rispondeva mai. Se ne occupava la madre che con sguardo severo giudicava il postulante, quasi sempre mandandolo a stendere. Solo una volta acconsentì. Il tipo pareva Clark Gable, impomatato con chili di Linetti, baffetti alla Modugno e completo a righe stile mammasantissima. E alla madre guardiana piacque. La figlia si alzò, percorse tutto il palco e per la durata di quattro canzoni piroettò con il vetusto uomo della notte. Quattro canzoni, ovvero Let it Be, Symphaty dei Rare Bird, Summertime e I Want Togheter, una hit di Max. Alla fine la ragazza torno su, sguardo liquido e malinconico. La scintilla non era scattata.
Quei meravigliosi, complicati anni ’70 che stavano iniziando…