È notizia di queste ore l’assegnazione del premio Nobel per la Letteratura a Bob Dylan.
Bene.
Anzi benissimo.
Non credo ci sia altra persona al mondo che in questi ultimi sessant’anni abbia segnato la vita di ciascuno di noi, a qualsiasi latitudine e di qualsiasi generazione.
Si parla di qualche miliardo di individui e non mi pare poco.
Per quanto la sua personalità sia scomoda e il suo carattere burbero, le pagine che ha scritto e cantato sono state il termometro di decenni carichi di odio, razzismo, guerre, ribellioni, mode, cambiamenti, ideali, scontri tra padri e figli, tra uomini e donne, tra poveri e ricchi, tra potenti e gente del popolo.
Anche questo non mi pare poco.
La sollevazione più o meno indignata (e più o meno calcolata per avere visibilità riflessa) di alcuni personaggi della scena mediatica mi fa lo stesso effetto delle curve di montagna in pullman dopo un pranzo luculliano e ricco di grassi.
Dà fastidio che un semplice cantautore abbia lasciato un segno indelebile nella storia. Quegli strani tipi svedesi forse non avevano messo in conto che la notizia avrebbe messo in subbuglio una buona fetta di rosiconi.
“Ma come si permettono…”
“…hanno premiato quel tizio con la sua chitarrina e quella voce sgraziata…”
“…quando ci sono fior di personalità che dietro alle scrivanie in mogano e dentro un doppiopetto firmato hanno dato esempi ben più significativi…”
Ricordo con chiarezza quando nel 2009 fu insignito dello stesso premio per la Pace Barack Obama, pochi mesi dopo la sua prima elezione.
Ricordo quanta speranza il pianeta riponeva in lui.
Ricordo anche quanto vane siano state le speranze riposte, tanto che fra poche settimane l’America si ritroverà un nuovo Clinton alla Casa Bianca.
Allora, in occasione di quel premio, nessuno si inalberò benché si trattasse di un premio ancora tutto da guadagnare e, col senno di poi, mai guadagnato.
Ci sono uomini e uomini, ci sono premi e premi.
Meglio un buon ciocco di legna da ardere che un covone di paglia.