Reno – la virale rivoluzione del linguaggio [Il Superstite 297]

Arona Danilo nuovadi Danilo Arona

 

Non intendo scrivere l’ennesimo coccodrillo (materia che purtroppo abbonda negli ultimi tempi e che dovrebbe indurci alla riflessione, o alla ribellione, nei confronti dell’ambiente in cui siamo costretti a vivere).
Non sarà così perché il soggetto, Reno – Renato Torti, per qualcuno degli amici di antica data “Reno” era lo stradinom di pertinenza – non sarebbe così d’accordo.

Voglio invece rievocare un aspetto del Renato più giovane, quello che ho frequentato con una certa assiduità dal’70 in poi, che ci restituisce la cifra di un uomo geniale e ironico di cui ogni parola spesa, anche quella apparentemente più fatua, diventava prezioso materiale di elaborazione.

Avevamo vent’anni e noi – mi riferisco a tutti quelli che tra barbe, capelli lunghi e impegni vari, tra il culturale, politico e musicale, esprimevano una sincera diversità produttiva – ci aggregavamo l’un l’altro in vere e proprie pacifiche “bande” pronte a utilizzare le risorse urbane per conoscerci e agire. Va da sé che il centro di Alessandria, la piazzetta, addirittura i gradini dell’obelisco nella bella stagione, fossero luoghi deputati ad accorparci, ognuno con la sua personalità in via di formazione.

Renato conquistò tutti con una sua forma di linguaggio, che era proprio reno“sua” ma a disposizione di chiunque volesse usufruirne, particolarissima e pure comica che in brevissimo divenne virale tra tutti i suoi amici. Non ricordo proprio tutto di quel suo lessico particolare, soprattutto non lo ricordo perché non avrei mai pensato di costringermi a ricordare. Però quel che rammento credo sia sufficiente e forse non mancherà chi sia in grado di farsi avanti a colmare le lacune.

Di sicuro ho una vivida reminiscenza di lui che non diceva affatto “la mia ragazza” con varianti più o meno ineleganti sul tema. Renato intanto non usava mai l’aggettivo possessivo per definire delle persone, proprio lo aveva abolito. Diceva “la creaturina” che è vezzeggiativo, un po’ ironico, di sicuro tenerissimo. Lo usava con una sottolineatura scherzosa, certo, e lo usava nei confronti della persona del cuore. Ci fu ovviamente chi se impadronì e qualche volta “creaturina” fu usato da altri anche per sottolineare degli evidenti controsensi, che so una persona in eccesso di peso e non proprio gradevole. Effetti della viralità.

Il termine di cui il mondo attorno a Renato s’impadronì piuttosto a lungo fu “spotismo” e “spota” era colui che a suo giudizio era affetto da “spotismo”. «Non sei altro che un volgare spota» divenne in poco tempo, in piazzetta, una frase che equivaleva a una sorta di guanto di sfida unito a una dichiarazione di evidente disistima. Da dove Renato l’avesse tirato fuori ancora oggi è un mistero, anche perché a nessuno veniva in mente di porre certe domande.

Giorgio Simonetti, Simone – il Colonnello negli ambienti degli extreme runner, – ne abusò a lungo per almeno un decennio. Per lui, e per tutto il popolo circostante, “spota” era sinonimo di stronzo, testa di cavolo, individuo senza dubbio da evitare. Non sono così sicuro dell’originaria intenzione semantica partita da Renato, però una men che sommaria ricerca nell’infinito glossario italiano delle parole desuete ci porterebbe in provincia di Pisa dove un tempo il termine “spotico” stava a indicare una “uguaglianza”, una sorta di identicità ricercata ad arte.

E allora chissà se Renato, uno degli uomini più brillanti e intelligenti nel suo essere anticonformista che abbia mai conosciuto in vita mia, non avesse sul serio recuperato quella radice linguistica per additare a suo modo – lieve, aggraziato e sarcastico – quella massa di qualunquismo soffocante dal quale ci sentivamo all’epoca circondati e invasi. Chissà, certe domande appunto non si facevano. Il genio lo si accettava anche nella sua mancanza di spiegazioni.

Infine vi regalo quello che per me fu uno dei suoi capolavori che, confesso, gli ho vampirizzato e che ancora oggi, a 66 anni – la stessa età sua – mi sento di adottare, il più delle volte al cospetto di Fabiana o di amici sul serio intimi. Una mattina lo trovai al Bar Moderno che beveva un caffè e aveva una faccia un po’ così, di quelle che all’occhio di un sodale sincero non sfuggono. Allora gli chiesi: “Ola, che succede?” (di certo non dissi “Ola”, ma passatemela…) e lui, girando lo sguardo – sempre sorridente anche nella tristezza – verso di me, così mi rispose: «Sono preda. Stamattina sono preda».
Io non aggiunsi altro. Ripeto: certe richieste di chiarimenti proprio non si usavano. Allora lui, forse impietosito dalla mia esitazione interpretativa, chiuse così: «A volte capita. Tutti ogni tanto sono preda».

Questo era (anche) Renato in quegli anni. Anzi, Reno, diminutivo che in questo caso non derivò dal suo straordinario glossario personale, in quanto gira un po’ in tutta Italia il vezzo di comprimere il nome in una parola più corta e più pratica. Qualche amico dell’epoca magari sarà in grado di riportare alla luce del ricordo altri modi dire del nostro grande Reno, che io non ho mai captato o che, semplicemente, ho dimenticato.

Concludo, rubando le parole a Guccini: voglio però ricordarti com’eri, pensare che ancora vivi. E che ancora parli, aggiungo io, insegnandoci aspetti nascosti e inusuali della vita.