Nel 1818, e dunque in un’epoca che era ancora napoleonica, Giacomo Leopardi scriveva il “Discorso di un italiano intorno alla Poesia Romantica”. Chi abbia buona memoria scolastica o sia per motivi suoi appassionato di belle lettere ricorderà di essersi imbattuto in questo testo, e ne avrà probabilmente riportato una curiosa impressione; Leopardi vi difende la Poesia che noi diremmo Neoclassica di contro alle moderne tendenze del Romanticismo, ma lo fa con argomenti che appaiono romantici: e si ha, insomma, la sensazione che Leopardi abbia scambiato le etichette.
Mi si consenta di rimanere nel banale, e di sorvolare sulle motivazioni che hanno portato o Leopardi o noi a mescolare le carte: cancelliamo i nomi, e badiamo alla dichiarazione di Poetica che Leopardi ci lascia. La Poesia non deve farsi irretire dalle opinioni moderne che cantano l’incivilimento, ma dobbiamo anzi fare come quei nostri predecessori antichi cui la poesia veniva tanto spontanea e cantare quella Natura al cui confronto la Ragione è cosí piccola cosa; dunque: tempo arcaico, stato primitivo e fertile cui solo l’immaginazione sa ricongiungere, mondo naturale contrapposto alla pochezza della razionalità.
Leopardi, certo, non si fermò a questo: e, nel corso dei diciannove anni che ancora visse dopo il Discorso, le idee di Poetica erano destinate a crescere e maturare in lui secondo varie vicende. Qui interessano, però, due cose: la sottigliezza del tessuto che vogliamo separi Neoclassicismo e Romanticismo (e, in generale, momenti diversi dell’espressione umana: ma il Romanticismo si presta in modo particolare tanto a questi equivoci quanto alle loro disambiguazioni), e la profondità e attualità del pensiero leopardiano.
Sul primo aspetto, mi si conceda solo una breve riflessione. Le categorizzazioni funzionano quando consentono una contrapposizione perfetta: una cosa è sé stessa quando non è nessuna di tutte le altre cose; ma per i prodotti solo spirituali della vita umana ciò è logicamente irraggiungibile: di nessun pensiero si potrà dire che non condivide il campo di esistenza con altri pensieri, e tanto meno si potrà far questo con correnti intere di pensiero. Insomma, le stagioni dell’Arte si possono definire per accumulo ma mai per negazione: si può dire quali caratteristiche ha il Romanticismo ed elencarne anche a migliaia cosí da individuarne in modo incontrovertibile il nocciolo e il cuore, ma non si può dire che cosa è non-romantico in modo da definire i confini della corrente; questo non vuol dire che tutto sia un gran calderone e che le diverse correnti siano in realtà tutte la stessa cosa indefinita: ma che di ogni stagione di pensiero noi vediamo l’anima dura ma mai il confine.
Sul pensiero di Leopardi, il punto è che lo si dovrebbe studiare in Filosofia e non solo in Letteratura. Si pensi che questo già avviene per personaggi come Galilei: lo si studia parlando di Scienze (e questo è ovvio), ma anche in Filosofia e in Letteratura (campi sui quali ha in effetti influito in modo davvero influente). Similmente si dovrebbe fare di Leopardi: studiarlo fondamentalmente in Letteratura, ma inserirlo (cosa che forse un paio di manuali ha fatto in magri trafiletti) nei libri e nei programmi di Storia della Filosofia; e trattarlo nei convegni e nei saggi come il grande filosofo che è, accanto alla statura di poeta immortale.
Il punto è che Leopardi è sempre rimasto isolato dai grandi dibattiti europei: cui pure partecipava con brillante facondia e pensiero profondo, ma da casa sua. Cosí è restato fuori dal catalogo dei pensatori, e la sua poesia è stata letta con partecipazione emotiva e patetismo quale frutto della sensibilità estrema di uno storpio infelice. Sta di fatto che la poesia di Leopardi veicola anche (in primo luogo) qualcosa di ben piú potente che i coinvolgenti sospiri di un malatino pessimista: è tutt’un’interpretazione del Mondo a informare i versi del Nostro, una visione dell’esistenza che il Poeta trasforma in emozione vivente.
E qui sta una (ma non è certo quella primaria) delle funzioni dello Zibaldone di Pensieri leopardiano, opera di diario interiore monumentale rimasta inedita a fronte delle poche altre centinaia di pagine – fra poesie e prose – stampate in vita. Chiaramente, la Letteratura non si dà a peso: l’intensità di poche paginette può sconvolgere la vita e un librone imponente può essere acqua annacquata e null’altro; ma lo Zibaldone di Pensieri messo insieme da Leopardi è un’opera cosmica sia in senso microscopico che in senso macroscopico, perché è di una vastità e di una densità letteralmente inarrivabili. E una funzione di quest’opera è di essere una guida per il Mondo dell’Idea che informa i “Canti” e le “Operette Morali”.
Ma questa è solo la terza delle funzioni di questo tomo prodigioso. La prima è inattingibile, perché è quella di esser scritto e riletto come diario interiore dal Poeta: e questa funzione è morta (o viva) con lui. Ma la seconda – e prima per noi – funzione dello Zibaldone di Pensieri leopardiano è quella di esser letto: di per sé e in unione con le altre opere del Poeta, ma in modo scambievole e non in loro funzione. Non è una lettura noiosa, perché i singoli pezzi sono brevi e le tematiche varie; certo però è impegnativa e lunga: chi ancora non l’abbia fatto e abbia voglia d’intuire qualcosa che cambierà radicalmente la sua vita, aspetti una lunga vacanza e parta all’avventura.