Lo schema della fine dei giorni – il teorema della distruzione [Il Superstite]

Arona Danilo nuovadi Danilo Arona

 
Una notizia, all’apparenza quasi innocua, di pochi giorni richiama di nuovo l’attenzione su quei comportamenti socialmente niente affatto innocui messi in atto da individui che io chiamo i “Renfield” (personaggio secondario di Dracula che annunciava dal manicomio l’arrivo del vampiro a Londra) che, attraverso atti ed esplosioni di aggressività spesso confinanti col terrorismo, annunciano che, per dirla con Ray Bradbury, “qualcosa di sinistro sta per accadere”.
Ne ho già scritto più volte, tanto in questa rubrica quanto altrove, e la cronaca sempre più e mio malgrado intende darmi ragione.

A Como, appunto, si è verificato il caso, per fortuna più bizzarro che tragico, dell’autista di autobus “indiavolato” che, inneggiando a Satana, ha preso a suonare il clacson all’impazzata, passando con il semaforo rosso e blaterando frasi senza molto senso, tra cui una che un certo senso ce l’ha: «Quando Satana arriverà, questa gente morirà». Esaurita in pochi minuti la buriana, l’episodio si inserisce bene in quel dubbioso bivio antropologico che da anni mi fa chiedere – e non solo a me – se non esista una sorta di “Schema” nell’imbuto degli eventi del genere che si ripetono con frequenza sempre più accelerata.

Viviamo ormai quotidianamente, ci piaccia o meno, e in Italia anche con una sorta di allegra incoscienza, in una condizione mentale quasi “bellica” che ci costringe ancora una volta a richiamare le tesi del filosofo che scrive in Città panico che «la catastrofe, nelle sue diverse forme e manifestazioni, è lo sfondo permanente entro cui tutti noi oggi ci muoviamo. La vera novità è che siamo entrati nell’era dell’incidente integrale, sistemico, ovvero dall’incidente isolato siamo passati all’iper-incidente globalizzato, vale a dire un incidente che degenera, producendo altri incidenti a catena».

Parole dette in epoche non sospette, ormai più di dieci anni fa, e che sembrano pronunciate proprio a commento di quel che sta accadendo ancora oggi in fasi sempre più ravvicinate. Come questa considerazione: «Si ha sempre una sostanza già esistente, poniamo, una montagna. Poi c’è l’evento: il terremoto». Reazione a catena che diventa anche inevitabile schema mediatico, perché, se alla concatenazione in atto innestata dall’evento primo, se ne aggiungono altre, preesistenti o successive (erosione dei sistemi economici, nuove guerre, attacchi terroristici non prevedibili), il quadro globale di riferimento ha così annullato distanze spaziali e funzionalità temporali (la velocità immobile e la realtà dominata dall’istante di cui parla Virilio).

Tutta questa globalizzazione del disastro rendono tante persone partecipi, anche a dispetto di loro stessi.  Persino coloro che s’illudono di sfuggirne, semplicemente non leggendo i giornali – e quanti ne esistono…
Però la tanatosfera diffonde segnali captabili persino da coloro nati privi di antenne. La visibilità globale del disastro enfatizza l’arrivo di “qualcosa” sempre più grave. Non è azzardato dire, con una scontata generalizzazione che, mentre in molti si vive immersi in una bolla di nervosismo costante, vicinissimo alla isteria, altri, con le menti disperse o “cellulate” per dirla con King, interpretano questa realtà purtroppo in frenetico divenire come un lontano e inoffensivo film di cui sono soltanto spettatori.

Ma sotto sotto le paure lavorano. Già esiste da anni la Sindrome da Apocalisse. Così Antonio Lo Iacono, presidente della Società italiana di psicologia, al proposito: «Molti pazienti ci raccontano sogni che esprimono forti paure apocalittiche e grande incertezza per il futuro. Non possiamo parlare ancora di psicosi, ma è davvero molto forte la paura per il futuro, che si nutre anche delle difficoltà che la crisi economica ha portato nel quotidiano di molti italiani». Secondo Lo Iacono, anche le persone più razionali e scettiche vacillano sotto il peso della precarietà sia economica che legata alle catastrofi naturali.

Insomma, davanti alle ipotesi di Apocalisse imminente, cresce il numero di quelli che pensano: “non è vero, ma ci credo”, in un crescendo di angoscia più diffuso ai livelli profondi di quanto non si pensi.
Tanti eventi, apparentemente slegati, concorrono quindi all’ipotesi dello Schema.
Se da un lato ritorna in auge il demonio mai dimenticato – lo ha ricordato pochi giorni fa anche Papa Francesco dichiarando, riferendosi all’orrendo omicidio di padre Jacques Hamel, che “uccidere in nome di Dio è un atto satanico” (affermazione di notevolissimo peso teologico) -, dall’altro gli attacchi isolati (ma sempre più gravi) di terroristi fai-da-te, spesso poco compresi anche dagli analisti, alimentano un quadro generale di aspettativa pre-apocalittica che dovrebbe servire, soprattutto nei disegni di occulti manovratori – che non per forza devono trovarsi soltanto a Raqqa -, a destabilizzare l’anima collettiva dell’Occidente. Così può capitare che lo Schema si trasformi, addirittura in un’arma. Perché, se il tutto finisce in un modello sociale che annuncia, come un Renfield sociologico, “qualcosa di terribile che sta arrivando”, diventa impossibile all’inconscio di sottrarsene. Così lo Schema si forma anche contro la volontà di chi si sforza di riportare le notizie nel modo più asettico.

E, citandomi, se posso, ecco che lo Schema sta diventando la sottotraccia, se non qualcosa di più sostanzioso, di una saga narrativa che, a partire da L’estate di Montebuio, fa sì che ogni mio nuovo titolo altro non sia in realtà che un nuovo tassello dell’evoluzione, fuori controllo da parte mia, del medesimo.

Così è per il recente Land’s End – Il teorema della distruzione, prodotto a quattro Land s End cover 2mani con l’amica Sabina Guidotti per Meridiano Zero, laddove la parola “teorema” allude senza filtro alcuno allo Schema in questione, e così sarà per fine anno nel romanzo “solista” Morgan e il Buio, che uscirà per Vincent Books, in cui un vecchio e dimenticato chitarrista accompagna con la sua musica oscura l’arrivo di qualcosa “che non si può vedere e neppure ascoltare”.

Tengo a specificare che questa mia ultima fase narrativa non è esattamente pensata e meditata a tavolino. È un globale prodotto “di pancia”, istintivo, di cui mi sento vittima, e confesso al proposito di sentirmi tanto un Renfield della scrittura. In tutta sincerità vorrei sbagliarmi.