di Bruno Soro
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“Pangloss insegnava la metafisico-teologo-cosmo-stoltologia. Egli dimostrava a meraviglia che non c’è effetto senza causa (…). «È provato» diceva costui «che le cose non possono essere diversamente, perché tutto essendo fatto per un fine, tutto è di necessità per il miglior fine».
Voltaire, Candido, Bietti, Milano 1973, p. 8
Nell’editoriale a commento delle prime indiscrezioni sui contenuti del disegno di legge di Bilancio – il provvedimento che il Governo è tenuto a presentare al Parlamento entro il 20 ottobre -, il professor Fabio Pammolli scrive: “Il rallentamento dell’economia ha acuito disuguaglianze che producono tensioni sociali, incertezza e ostacolano le stesse prospettive di ripresa”, aggiungendo, poco dopo che, “per la crescita, redistribuzione ed equità non bastano”. (1)
L’autorevolezza della fonte (2) mi induce ad una insolita cautela. Se non ho inteso male, cosa peraltro sempre possibile – il grande filosofo della scienza Karl Popper consiglia di iniziare sempre una discussione con un “I may be wrong” (potrei sbagliarmi) –, il professor Pammolli imputa al rallentamento dell’economia (la causa prevalente) l’acuirsi delle «disuguaglianze» (effetto), le quali, a loro volta, inducendo tensioni sociali e incertezza (altri effetti), finiscono per ostacolare le stesse prospettive di ripresa (effetto di ritorno sulla causa). La catena degli effetti a cascata sarebbe pertanto riconducibile al rallentamento dell’economia, per contrastare il quale le sole politiche di redistribuzione ed equità non sarebbero sufficienti. Occorrerebbe tuttavia preliminarmente chiarire sia il perché del rallentamento dell’economia, sia l’origine delle disuguaglianze. Non ho dubbi che il professor Pammolli sappia quali sono le cause del rallentamento dell’economia italiana (che risalgono ai primi anni ’70 del secolo scorso) (3), così come sono certo che egli sia al corrente del fatto che mentre si è ridotta la disuguaglianza in termini di povertà assoluta a livello mondiale (quanto meno a far data dai primi anni ’90), nello stesso tempo sono cresciute le disuguaglianze in termini relativi sia negli Stati Uniti che nei paesi dell’Unione Europea.
Stavo leggendo proprio in questi giorni due libri tra loro strettamente collegati, non solo per gli argomenti che trattano, ma per il legame intellettuale che unisce i due autori: due letture interessanti che suonano a conferma di questa mia interpretazione. Trattasi di Acrescita. Per una nuova economia, del professor Mauro Gallegati (Einaudi, Torino, marzo 2016) e l’ancora fresco di stampa Le nuove regole dell’economia. Sconfiggere la disuguaglianza per tornare a crescere, del Premio Nobel (nella foto) Joseph E. Stiglitz (il Saggiatore, Milano, agosto 2016). Questi due altrettanto autorevolissimi economisti (4) ci spiegano, il primo, che “L’edificio già traballante dell’economia dominante (la cui narrazione, aggiungo io, pretenderebbe di curare la crisi economica con il teutonico «rigore») appare affidabile e sicuro come le abitazioni costruite sul Vesuvio”; il secondo ci mostra invece come “Il nostro mondo economico – vale a dire il modello di sviluppo impostosi dai primi anni ’70 del Novecento con l’avvento del pensiero liberista – (sia) stato sovvertito anche da una nuova concezione della relazione tra disuguaglianza e andamento dell’economia”.
Opportunamente documentata da Stiglitz con riguardo agli Stati Uniti (ma oserei dire osservabile in tutti i paesi occidentali), la crescente disuguaglianza non sarebbe in alcun modo la causa del rallentamento dell’economia reale, bensì la conseguenza (cioè l’effetto) della prima. Partendo da una critica all’ormai famosa tesi di Thomas Piketty (5), per il quale l’osservata crescita della disuguaglianza andrebbe imputata al fatto che la ricchezza sarebbe cresciuta più rapidamente rispetto al reddito, per Stiglitz “non è possibile dare una spiegazione teorica o empirica del crescente divario tra reddito e ricchezza interpretandolo come risultato della continua accumulazione di beni capitali attraverso il risparmio originato dal reddito”.
Tale divario, che è all’origine delle disuguaglianze, deriverebbe infatti dal cambiamento delle regole che strutturano l’economia, in combinazione con gli effetti di alcune grandi forze globali (la tecnologia, la globalizzazione, le tendenze demografiche e i mutamenti climatici).
La tesi di Stiglitz si fonda sulla distinzione, che egli pone al centro della sua analisi, tra «il capitale» inteso come accumulazione degli investimenti reali che determina la capacità produttiva di un sistema economico, e «la ricchezza» ottenuta dall’accumulazione della rendita derivante dalla crescente finanziarizzazione dell’economia. In quest’ottica, la crescente disuguaglianza che si riscontra tra i percettori del reddito frutto della produzione di beni e servizi e i beneficiari di quell’aumento del reddito “dell’1% più ricco della popolazione” (6), non sarebbe in alcun modo ascrivibile al rallentamento della crescita dell’economia reale, bensì ai cambiamenti intervenuti nelle regole che strutturano l’economia e all’azione congiunta delle grandi forze globali citate più sopra.
Il progressivo rallentamento dell’economia americana (e di quello mondiale verificatosi nell’ultimo mezzo secolo) (7) sarebbe pertanto imputabile ai cambiamenti intervenuti nell’insieme “delle leggi e delle politiche che definiscono la struttura dell’economia” le quali hanno privilegiato la finanziarizzazione a scapito del sostegno al sistema produttivo.
Scrive in proposito Mauro Gallegati che il “trauma che stiamo vivendo in questo momento assomiglia al dramma che abbiamo vissuto ottant’anni fa, durante la Grande Depressione, (…) provocato dalla stessa causa (l’aumento della produttività molto maggiore di quello della domanda) a cui si aggiunge oggi la globalizzazione” (p. 64). A pagina 35 dell’Introduzione del libro di Stiglitz è poi riportata un’immagine che sintetizza in maniera chiarissima la situazione: “Possiamo immaginare – scrive Stiglitz – la lenta crescita dei redditi e l’aumento delle disparità economiche come un iceberg”, alla sommità del quale (ovvero la punta visibile dell’iceberg, quella che ci dà la percezione della disuguaglianza) si osservano “retribuzioni modeste, indennità insufficienti e un futuro incerto”. Sotto il pelo dell’acqua vi sarebbero “i fattori che generano questa percezione (…): un sistema fiscale che genera un gettito insufficiente, che scoraggia gli investimenti a lungo termine e premia la speculazione e i guadagni immediati; una regolamentazione carente e un’applicazione permissiva delle norme che dovrebbero disciplinare l’attività d’impresa; e l’abbandono delle politiche e dei provvedimenti mirati al sostegno dei minori e dei lavoratori”. Alla base dell’iceberg, infine, vi sono “le grandi forze globali che condizionano l’evoluzione di tutte le economie moderne: la tecnologia, la globalizzazione e le tendenze demografiche”, fattori ai quali, dopo poche righe, aggiunge gli effetti imputabili ai cambiamenti climatici.
Si può uscire dalla trappola della disuguaglianza? Parrebbe di no, dal momento che, per quella che Gallegati chiama «la Teoria economica dominante» (che non prevede le crisi), e che Stiglitz etichetta come «visione disfattista», “le forze alla base della nostra economia non possono essere gestite” (p. 34, corsivo nell’originale). “Se non agiamo sulle leggi, sulle regole e sulle forze globali – scrive Stiglitz a conclusione della sua Introduzione – potremo fare ben poco”. (Ma noi) possiamo rimodellare la parte centrale dell’iceberg, cioè le strutture intermedie che determinano il modo in cui si manifestano le forze globali. Questo significa che il modo migliore per garantire sicurezza e opportunità economiche è intervenire negli ambiti tecnocratici del diritto del lavoro, della governance aziendale, della regolamentazione finanziaria, degli accordi commerciali, della discriminazione codificata, della politica monetaria e nell’imposizione fiscale. Detto in altri termini ciò significa che, coerentemente con il pensiero keynesiano, il sistema economico lasciato a sé stesso «non tende per necessità al migliore fine», ma che per correggerne i difetti (la disuguaglianza, ma anche la disoccupazione involontaria) diviene opportuno intervenire con opportune misure di Politica economica.
Ma come si è giunti a questo punto? Si chiede Stiglitz. Si è giunti a questo punto perché “il modello economico era sbagliato. A partire dagli anni settanta, le regole del gioco sono cambiate, distruggendo l’equilibrio di potere economico raggiunto nei tre decenni successivi alla Seconda guerra mondiale”, e l’elenco dei cambiamenti è impietoso:
“Nel settore privato – cito testualmente – la finanza non è più al servizio dell’intera economia, ma solo di sé stessa. Le grandi società non operano a vantaggio di tutti i portatori di interessi – dipendenti, azionisti e dirigenti –, ma solo del top management, con il pretesto di generare «valore per gli azionisti». L’aumento del potere di mercato di poche imprese in alcuni settori chiave ha ridotto la concorrenza. Risultato: comportamenti miopi, sottoinvestimento nell’occupazione e nel futuro, bassa crescita, prezzi più elevati e maggiore disuguaglianza.
Il nostro sistema fiscale incoraggia la speculazione invece che il lavoro, crea distorsioni nell’economia e serve gli interessi dell’1% più ricco”.
Le politiche monetarie e fiscali, troppo incentrate sulla difesa da certi rischi (deficit di bilancio e inflazione), ignorano le vere minacce alla prosperità economica, ossia la crescente disuguaglianza e il sottoinvestimento, e hanno prodotto più disoccupazione, più instabilità e meno crescita.
Nel mercato del lavoro, i cambiamenti delle istituzioni, delle leggi, delle norme e dei regolamenti hanno indebolito il potere dei lavoratori, che ora hanno difficoltà a contrapporsi agli eccessi di potere di mercato delle imprese (…).
Questi problemi sono ancora più gravi per chi è vittima di discriminazione o parte da una posizione svantaggiata. Il mercato favorisce la trasmissione dei vantaggi economici attraverso le generazioni, e la discriminazione ha impedito a larghe fette della popolazione di sviluppare il proprio capitale umano e di accumulare ricchezza” (pagine 40-41).
Questa lunga citazione, corredata anche solo dai titoli di alcuni dei paragrafi che formano la prima parte del libro dedicata all’illustrazione delle “Regole attuali” (8) , potrebbe benissimo rappresentare una sorta di «Manifesto dei progressisti» per tutti coloro che ancora credono che l’Unione Europea abbia un futuro. In ogni caso, a questo punto, ciascuno di noi avrà sicuramente le idee più chiare su chi sarà il prossimo Presidente degli Stati Uniti, sul perché anche nelle elezioni dei singoli paesi nell’Unione europea si affermano i populisti e su chi ha rubato il futuro ai propri figli.
(1) “L’insostenibile riforma della Previdenza”, La Stampa, 13 settembre.
(2) Fabio Pammolli è professore di prima fascia di Economia e Management presso la Scuola di Alti Studi di Lucca (IMT, Institutions, Markets, Technologies); senior scientist presso l’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT), nonché membro dell’Investment Committee of the European Fund for Strategic Investments (EFSI) della Banca Europea degli Investimenti (BEI), il Comitato responsabile per la valutazione dei potenziali progetti ai fini della erogazione dei fondi europei nel contesto del Piano Juncker.
(3) Mi si conceda il rinvio al mio “Crescita e recessione”, su Fatti non foste. Divagazioni di economia, politica e società, De Ferrari, Genova 2015, pagine 286-290.
(4) Allievo del professor Giorgio Fuà (1919-2000), Mauro Gallegati insegna Macroeconomia avanzata nell’Università Politecnica delle Marche ed ha pubblicato più di un lavoro scientifico in collaborazione con il Premio Nobel Joseph Stiglitz.
(5) Tesi sostenuta da Piketty nel suo bestseller Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014.
(6) La cui origine, peraltro, cito da Stiglitz, “deriva per la maggior parte dai profitti e dai bonus enormi e ingiustificati riscossi nel settore finanziario, provenienti, in misura non trascurabile, da attività improduttive e sfruttatrici”.
(7) Stando ai dati forniti dalla Banca Mondiale, il tasso di crescita dell’economia a livello globale è sceso dal 5,3% negli anni 1960-73 al 3,3% tra il 1973 e il 1985, poi al 3,1% tra il 1986 e il 1999 e infine al 2,2% tra il 1999 e il 2011.
(8) Ne cito solo alcuni a titolo di esempio, lasciando al lettore il gusto di scoprire nella seconda parte del libro come andrebbero “riscritte le regole”: “Più potere di mercato, meno concorrenza”; “Le nuove tecnologie creano nuove fonti di potere di mercato”; “La globalizzazione modifica l’equilibrio dei poteri”; “La crescita del settore finanziario”; “L’incapacità della finanza di autoregolarsi”; “La crescita della finanza e della disuguaglianza”; “Regole finanziarie più deboli creano un’economia più debole”; “La «rivoluzione degli azionisti», l’aumento delle retribuzioni degli amministratori delegati e lo strangolamento dei lavoratori”; “Cambiare le regole ha fatto salire alle stelle le retribuzioni dei dirigenti”; “Una rivoluzione fiscale per i più abbienti”; “Tagli alle imposte sbilanciati aumentano la disuguaglianza”; “Le aliquote più basse non hanno contribuito alla crescita”; “La fine della politica monetaria finalizzata alla piena occupazione”; “L’attenzione della Fed al tema dell’inflazione”; “Maggiore potere delle imprese a scapito dei diritti dei lavoratori”; “Il declino dei sindacati minaccia salari e benefit”; “L’allentamento delle norme di lavoro negli Stati Uniti”; “L’aumento della povertà nella fascia più bassa del mercato del lavoro”; “Discriminazione razziale”; “Discriminazione di genere”; “Le regole non aiutano le lavoratrici”; “Il gap retributivo di genere persiste”; “I benefici economici dell’uguaglianza di genere”.