Una delle scorse mattine, durante uno dei programmi di approfondimento televisivo che accompagnano il risveglio dell’utente pagante già dalle prime luci dell’alba, il viso noto di una delle Signore della Grande Politica, risvegliatasi di buonora per l’appuntamento con il pubblico, ha esordito con la sua Pillola di Saggezza. Pochi attimi dopo la sigla della trasmissione ha aperto bocca con grande trasporto emotivo per sostenere che il recente terremoto nel centro Italia molto ha insegnato ai politici. Molto, si. Meno che a tacere. Meno che a smetterla con la Retorica dell’Essere Buoni a tutti i costi.
Ho una casa a meno di duecento chilometri dalla zona disastrata, una casa di pietra, antica, eretta quando ancora il cemento era di pochi, quando l’acqua si portava con i secchi dal fiume sottostante e si usavano le canne per fare i sottotetti. Quando l’abilità del suo costruttore riusciva a incastrare con un solo colpo d’occhio una pietra sopra l’altra per erigere pareti altre tre metri. In quella casa ho sentito la scossa in occasione del terremoto aquilano. E ho sentito pure quest’ultima. A tratti, oltre al vibrare della terra, si risveglia anche la paura di chi, quelle case le abita. Ma tutto quello che si può fare è tenersela. Conviverci. Snobbarla.
Perché (come tutti quelli della zona) conosco bene l’assenza totale di aiuti economici per mettere in sicurezza questo tipo di case, edifici che rappresentano il bello dei nostri borghi e che affascinano i turisti, conosco bene la leggerezza con cui ognuno costruisce, abbatte e modifica grazie alla personale interpretazione di norme edilizie la cui complessità spesso non permette altro.
E’ sotto gli occhi di chiunque una situazione viaria oltre che arretrata pure scandalosa, una rete confusa, spesso senza indicazioni utili, che collega paesini spersi sulle alture appenniniche e che mai sarebbe in grado di sostenere l’urgenza di eventuali soccorsi. Compresi i tratti di strada di recente costruzione già franati dopo sei mesi dalla fine dei lavori e che a distanza di cinque, sei anni nessuno ha rimesso a posto. Perché? La solita litania che rende omogenea la nostra penisola. La ditta ha fallito, le amministrazioni non hanno soldi, ecc… ecc…
Ho fatto un percorso a ritroso nella mia personale memoria per ricostruire una linea fatta di terremoti, alluvioni, stragi.
La prima, la più nitida, è quella del 9 ottobre del 1963. La frana del monte Toc e la tragedia del Vajont. Era una sera in bianco e nero, umida per la prima nebbia e per la pioggia incessante. E pure per le immagini in bianco e nero, un po’ sfocate con cui la tv ci raccontava quella tragedia. Arrivavano notizie di 2000 morti, di fango che aveva spazzato interi paesi, comunicati dalla voce sommessa del cronista. E i miei genitori riportavano quel che ascoltavano ai vicini di casa che ancora non possedevano il mezzo.
Poi sono venute a raffica tutte gli altri drammi, più o meno gravi, da Firenze, al Belice, dal Friuli, all’Irpinia. E via, senza contare il gran numero di città ferite dalle scosse telluriche o dall’acqua portatrice di vita quanto capace di seminare morte. Uno strascico infinito di morti incolpevoli a causa del menefreghismo amministrativo locale mescolato alla complicità della politica romana, di affaristi criminali e criminali con la voglia di rubare senza sporcarsi le mani con una pistola. Uccisi da una memoria che non ha saputo diventare cultura di un’intera nazione le cui fondamenta geologiche sono e saranno sempre a rischio.
Di quante altre tragedie hanno ancora bisogno i Signori e le Signore della Grande Politica per imparare un qualcosa da esibire davanti a uno schermo? Per saper mettere un freno a lavori pubblici inutili quanto dissennati, con uno stato colpevole di essere il primo a non rispettare la legalità che impone. Quanti dei responsabili di queste tragedie hanno pagato? Quanti hanno subito una dura condanna, tale da far intimorire chi nutrisse la voglia di riconoscersi in un identico modello criminale?
Sette, otto, dieci anni per avere delle sentenze, con condanne lievi quando ci sono state, con il tempo perso nella difficoltà di giudici e investigatori a districarsi tra pastoie burocratiche con le mille firme di mille enti diversi che autorizzano un lavoro piuttosto che un altro, creando un calderone in cui il rimpallo di responsabilità diventa un gioco da ragazzi e agevola i banditi.
Oggi, di fronte ai feretri, la retorica della politica si alterna alle invocazioni del vescovo al suo dio e agli elogi (sacrosanti) ai soccorritori, proprio quelli snobbati in assenza di gravi calamità e deprivati delle necessarie forze economiche e di personale per renderli più professionisti e meno eroi.
Retorica, invocazioni, elogi altro non sono che un intrico di parole (comprese le mie, ormai sempre più stanco di continuare a rimestare nel pentolone di critiche che non vedono mai uno sbocco positivo) che servono a riempire le pagine del solito volume stampato in edizione economica e con carta di scarso valore per leggere una storia di cui ormai tutti conosciamo la fine. Con il cattivo pronto a farla franca.