Ad una settimana dalla famosa assemblea cittadina del PD che ha sfiduciato il sottoscritto da parte di meno di 1/3 dei membri dell’organismo dirigente alessandrino, e preso atto di alcune dichiarazioni proposte ai giornali cittadini da parte di esponenti del PD locale, è utile avviare una riflessione sul futuro del Partito locale senza tuttavia cadere in un approccio provincialistico.
Infatti quando si parla della dialettica interna ai partiti da un punto di vista nazionale si accetta che la stessa dialettica possa essere molto articolata addirittura con prese di posizioni differenti su temi cruciali: è il caso del dibattito all’interno del PD sul referendum costituzionale ( ed in precedenza sul Jobs Act) ma è stato il caso anche di altri partiti che hanno addirittura visto scomuniche, scissioni e quant’altro.
L’idea quindi di un partito granitico che si aggrappa (o si impicca) ad un unico leader o ad un’unica linea politica esiste solo nella teoria ma non nella pratica del vissuto quotidiano dei partiti italiani. Ciò almeno da diversi anni.
Quando però si scende nel livello locale si fa fatica a cogliere questo elemento culturale nell’erronea convinzione che monolitismo sia sinonimo politico di credibilità e affidabilità.
Da tempo è in corso un dibattito all’interno del PD sul ruolo del partito e sul funzionamento dei suoi livelli di base e dei suoi organismi dirigenti. Quando Renzi si è candidato alle primarie ha inserito nel suo programma la volontà di dare attuazione all’art. 49 della Costituzione nel senso di attribuire un riconoscimento giuridico specifico ai partiti (attualmente sono delle semplici associazioni caratterizzate da una giurisdizione domestica fortemente motivata dall’opportunità politica) attribuendo quindi posizioni di diritto soggettivo ai suoi iscritti, la possibilità di un ricorso all’Autorità giudiziaria e soprattutto l’obbligatorietà di una gestione finanziaria trasparente; quando questa riforma sarà attuata i cittadini saranno certamente più motivati ad aderire all’attività politica (come è avvenuto in Italia fino agli anni ’80) nella convinzione che la militanza politica è la condizione essenziale per una migliore tutela dei diritti e degli interessi generali e di categoria. Viceversa l’assenza di una militanza diffusa favorisce la ricerca di tutele ed interessi individuali costringendo la politica a ricercare la miglior sommatoria di questi interessi aggregando in particolare quelli più facili da raggiungere ovvero i c.d. poteri forti.
Venendo al livello alessandrino non sono condivisibili alcune affermazioni che attribuiscono al sottoscritto una carenza di iniziativa ed una scarsa attenzione ai problemi della città: quanto al primo punto l’assemblea cittadina di Alessandria fino a non molti mesi fa si riuniva almeno una volta al mese e discuteva spesso di progetti e di problemi che riguardavano la città che, salvo rarissimi casi, restavano lettera morta.
Inoltre è sempre stata garantita un’iniziativa esterna sui temi oggetto del dibattito politico nazionale, dalle riforme costituzionali, al Jobs Act, sulla legge di stabilità ecc., nella convinzione che il dibattito politico interno non poteva esaurirsi “sul dove fare un banchetto per distribuire la propaganda”. Sul secondo aspetto è utile ricollegarsi all’analisi sulla situazione nazionale: per poter richiedere impegno partecipativo ai cittadini è necessario che gli stessi si sentano coinvolti sulle scelte e soprattutto che abbiano contribuito a determinarle, nel bene o nel male.
Da tempo molti amministratori pubblici ritengono che i partiti non siamo più in grado di svolgere il ruolo di cinghia di trasmissione tra le amministrazioni ed i cittadini. Prevale sovente una concezione leaderistica degli amministratori che tendono a concentrare sulla propria personalità ogni attenzione politica. Se poi il rapporto con l’opinione pubblica viene meno scatta la tentazione di scaricare sul partito ogni responsabilità.