Il santuario dei gesti bianchi riapre due settimane ogni anno, e ogni anno vi si ripetono riti e tradizioni. Ogni anno i fortunati che riescono ad accedervi possono assistere, frequente pioggia permettendo, a partite sovente memorabili.
Ecco, ci fossi andato una volta per decennio, iniziando novant’anni fa (Wimbledon si gioca da molto prima, dal 1877, nell’attuale circolo di Church Road dal 1922, primo anno in cui il vincitore dell’edizione passata non ha aspettato in finale lo sfidante emerso dal torneo), anche sono una volta ogni decennio avrei voluto vedere queste partite…
1926. Secondo turno femminile. Suzanne Lenglen batte 6-2 6-2 Evelyn Dewhurst, australiana. Non sappiamo se la Divina era davvero inavvicinabile, o se il mito che su di Lei ha costruito Gianni Clerici, giornalista lui pure “divino”, ce l’ha ormai consegnata definitivamente così. Di certo, come spesso avvenne per lei, nella sua breve vita, lo sport si mischiava al melodramma. Questa partita, infatti, facile e a inizio torneo, passa alla storia soprattutto per quando non si è giocata, con la Regina (non si perdeva un solo match di Suzanne) a guardare il campo centrale tristemente vuoto e la Lenglen, tra lacrime e crisi isteriche, a rifiutarsi da uscire dallo spogliatoio dedicato alla campionessa in carica, offesissima perché avevano spostato l’incontro della Divina per accontentare la richiesta di una semplice Regina. Quando finalmente si giocò, il pubblico non la accolse degnamente, e Lei ferita lasciò il torneo, accettò le offerte americane, diventò professionista, e né Wimbledon né nessun altro torneo ebbe più l’onore unico di vederla tra le partecipanti, che quasi sempre voleva dire vederla vincitrice.
1936. Finale maschile. Fred Perry (sì, quello delle magliette) batte, anzi asfalta 6-1 6-1 6-0 il barone Gottfried von Cramm. Alla fine del match l’arbitro comunica agli spettatori le scuse dello sconfitto. Infortunato seriamente nel primo gioco, aveva resistito fino alla fine perché ritirarsi non sarebbe stato degno.
Il barone tedesco è probabilmente il più grande giocatore di sempre a non avere mai vinto Wimbledon. Bellissimo, biondissimo, elegantissimo, di razza purissima, avrebbe potuto essere il semideo sportivo del Reich. Solo che… l’aristocratico e coltissimo campione era un feroce oppositore del regime e di Hitler. Che dopo la terza finale persa, e una sconfitta in Coppa Davis contro gli Stati Uniti, lo perseguitò per la sua omosessualità, arrivando a incarcerarlo, stroncandogli la carriera (il che non impedì al regime di arruolarlo e mandarlo a combattere sul fronte orientale).
1947. Primo turno. Hans Redl contro il britannico Archer.
Nel 1946 gli sconfitti non poterono giocare sul Centre Court più volte bombardato negli innumerevoli raid aerei nazisti contro Londra.
Un anno dopo, quando Hans Redl, l’austriaco che in guerra aveva perduto un braccio, alzò la palla con la racchetta per batterla, “il gioco si interruppe sotto gli applausi dei suoi passati nemici. Era il segnale della pace.” (Gianni Clerici)
1954. Finale maschile. Jaroslav Drobny batte in quattro set Ken Rosewall. Apolide, scappato come molti suoi connazionali dalla Cecoslovacchia dopo le repressioni della fine anni quaranta (disertò mentre era in Svizzera, atleta poliedrico, con la nazionale di hockey alle Olimpiadi invernali, avendo con sé sole poche lire, spazzolino e dentifricio), Drobny sembrava destinato a perdere sempre le finali importanti. Il pubblico era tutto con lui, trentaduenne, contro il diciannovenne aussie, favorito. Invece il mite Jaroslav quel giorno finalmente sfuggì al destino di perdente.
Per una sorta di contrappasso, sedici e poi venti anni dopo, quando Rosewall tornerà a sorpresa, prima trentacinquenne poi quasi quarantenne in finale, contro baffo Newcombe e poi contro il giovane arrogante Jimbo Connors, tutto il pubblico sarà con lui. Purtroppo senza che questo gli consenta di vincere finalmente il torneo.
1969. Primo turno. Pancho Gonzales batte 11-9 al quinto e decisivo set Charly Pasarell. Finalmente un anno prima, nel 1968, i tornei e anche Wimbledon diventano Open.
Pancho Gonzales è stato un bambino poverissimo, addirittura considerato tardo. É diventato invece un magnifico atleta, probabilmente il più forte tennista degli anni cinquanta. Passato però professionista a soli ventidue anni, per ben 16 anni non può partecipare ai tornei riservati ai (presunti) dilettanti, e questo fa di lui il campione con la bacheca meno colma di trofei di sempre.
Quando infine pro e amatori possono giocare insieme, Pancho è quarantenne, e suo è il discutibile record di essere il primo professionista battuto da un dilettante, il britannico Cox.
Quel primo turno di fine giugno 1969 vinto dopo ben 112 game giocati è la sua ultima, romantica, dimostrazione di quello che sarebbe potuto essere, se l’era dell’Open fosse iniziata, come giusto, anni prima. É anche rimasto il più lungo match mai giocato a Wimbledon fino alla folle maratona del 2010, quella tra Isner e Mahut finita 70-68 al quinto dopo tre giorni di gioco.
Agli ottavi Pancho perderà poi contro Arthur Ashe, pochi anni dopo primo campione afro-americano, tennista elegantissimo, uomo straordinariamente sfortunato.
1978. Finale femminile. Martina Navratilova batte 7-5 al terzo Chris Evert. Per la prima volta si trovano in finale le due grandi rivali, le due grandissime amiche. La perfettina Chris ha già due titoli, Martina vince il primo di nove in singolare, cinque proprio sconfiggendo la Evert, che in finale a Wimbledon non batterà mai la più grande tennista di tutti i tempi.
Martina, classe 1956, vince l’ultimo trofeo sull’erba londinese quarantasettenne nel 2003, in doppio misto con Leander Paes, campione ancora lo scorso anno (a 42 anni) insieme ad un’altra Martina nata in Cecoslovacchia, la svizzera Hingis, in singolo invece campionessa giovanissima, a soli 16 anni nel ’97.
1980. Finale maschile. Poche storie, il tie-break del quarto set, interminabile, alla fine vinto 18-16 da John McEnroe, resta il gioco più famoso e più ricordato del tennis.
La partita finisce 8-6 al set decisivo per Borg, che vince il suo quinto consecutivo Wimbledon, e l’ultimo match importante della sua carriera. Poi gli succede come a Joe Frazier, che per battere Alí dovette sostenere uno sforzo psico-fisico tale da non riuscire più a essere competitivo.
McEnroe, uno che ha vinto meno trofei di molti altri tennisti, rimane comunque nella memoria di tantissimi come il più originale, rissoso, talentuoso e divertente giocatore mai visto.
1999. Finale femminile. Fine del millennio, fine di un’era. La partita va alla Giunone Davenport, già trentatreenne, alla prima finale sulla sacra erba. Sconfigge Steffi Graf, che gioca qui l’ultimissimo match di un Grande Slam. Ha già vinto sette volte, tutti si aspettano l’ottavo successo. Invece finisce la gloriosissima carriera perdendo in due set, mentre sta iniziando per lei la felice vita di coppia di campioni con Andreino Agassi.
Dall’anno dopo iniziano a vincere (salvo rare eccezioni) le sorelle Williams, e almeno Serenona non ha ancora smesso.
2001. Finale maschile. Vince infine, dopo moltissime emozioni, 9-7 al quinto, Goran Ivanisevic. Ha già perso, il disgraziato, tre finali. Non è più tra i primi cento al mondo. Al tradizionale torneo preparatorio dei Queen’s l’ha battuto, figuriamoci, l’acquese Cristiano Caratti. Gli organizzatori discutono a lungo prima di dargli una wild-card, praticamente come una carta “opportunità” di un gioco da tavolo, che lo ammette al tabellone dei 128 sfidanti.
il talento di Goran c’è ancora tutto, ma la spalla sinistra la tiene insieme lo scotch praticamente. I suoi servizi velocissimi viaggiano più piano, i colpi mancini vellutati sono più rari, in compenso la testa di “IvanCrazevic” sembra perfino stabilizzata. Il finalista con la peggiore posizione in classifica della storia ultra-centenaria del torneo alza finalmente il trofeo proprio quando nessuno se l’aspettava più.
Eppoi, 2014. Finale doppio femminile. Lo vincono Roberta Vinci e Sara Errani. Per la prima volta un tennista italiano (meglio: due tenniste italiane) vincono un trofeo principale nel tempio del gioco con la racchetta, in uno dei luoghi più sacri di tutto lo sport.
Non ce l’aveva fatta neanche Nicola Pietrangeli, battuto solo al quinto set in semifinale da Rod Laver nel 1960, e in finale insieme al “socio” Orlando Sirola nel doppio del 1956.
La Vinci e la Errani partecipano, vincendo il torneo più importante, all’epoca gloriosa del nostro tennis femminile, insieme alla Francesca Schiavone vincitrice del Roland Garros e alla Flavia Pennetta, campione in carica degli US Open con la finale tutta italiana proprio contro Roberta.
p.s. L’immagine del Centre Court è disegnata da Stephen Wiltshire, artista straordinario (cercatelo su Google, merita)