Ludovico Ariosto è spesso citato come l’autore della seconda opera (dopo la Commedia e prima di “I Promessi Sposi”, per cronologia e per valore) piú importante della Letteratura Italiana; al di là della maggiore o minore considerazione nella quale ognuno di noi possa tenere classifiche di questo genere, il semplice fatto che una classifica di questo genere esista è indice della considerazione nella quale è tenuto l’“Orlando Furioso” anche presso un pubblico mediamente ampio. In effetti, con la “divina” Commedia ed “I Promessi Sposi” il Poema ariostesco non ha in comune solo l’imponenza – non tanto come numero di pagine, ma proprio come facoltà di comprendere al suo interno la descrizione del Mondo – e la straordinaria fortuna: ma anche il ruolo svolto nella vita del suo autore e nella Storia della nostra Lingua.
Da un lato, infatti, l’“Orlando Furioso” è stato per Ariosto l’opera della vita, dal momento che la sua gestazione materiale – fra stesure e revisioni – tenne impegnato l’Autore per circa vent’anni (anche senza considerare gli anni di formazione che avrebbero portato ad intraprendere l’Opera) e che lo consegnò alla fama imperitura. Dall’altro lato, il Poema, assumendo in sé le nuove teorie sulla Lingua, costituisce con la sua notorietà un nuovo modello linguistico e stilistico, un poco com’era stato per la Commedia di Dante Alighieri e come sarebbe stato per il romanzo manzoniano.
La Teoria della Lingua cui si rifà Ariosto è quella esposta dall’amico Pietro Bembo nella sua opera “Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua”: gli autori tengano ben distinta la Lingua che scrivono da quella che si parla ricercando la piacevolezza e l’eternità per le loro opere e rivolgendosi ad un pubblico intellettuale rifacendosi ai modelli classici del Canzoniere di Petrarca (per la Poesia) e del Decameròn di Boccaccio (per la Prosa).
Sulla base di questa teoria, Ariosto riscrive il suo Poema, fondendo e rifondendo i suoi versi nella straordinaria “ottava d’oro” che lo contraddistingue.
Su una simile idea linguistica si fonda il dettato della sua poesia lirica in Italiano (specificazione necessaria dal momento che la produzione lirica ariostesca è per ampia parte costituita da opere in Latino, cosa peraltro non inconsueta per l’epoca): si tratta di poesie di ispirazione petrarchesca per quel che riguarda i metri (sonetti, madrigali, canzoni) e le tematiche (prevalentemente amorose).
Al contrario però della gran parte della Poesia petrarchista – compresa la produzione dello stesso Bembo, ottima per fattura ma programmaticamente priva di originalità (se non si consideri, come anche andrebbe fatto, l’originalità della scelta consapevole del modello che viene poi seguito pedissequamente) –, Ariosto rinnova dall’interno le forme e le tematiche classiche facendone il veicolo di una Poetica di eclatante originalità.
La via trovata dal Nostro è quella di una diversa e complementare forma di Classicismo: quella pienamente rinascimentale. La riscoperta degli “Antichi” e la ricostituzione della linea ininterrotta (o avvertita come tale) che li lega ai “Moderni” porta Ariosto a rifondere nei versi petrarchisti la grande Poesia Latina (Catullo ed Orazio ed i sommi Elegiaci). Anche l’inserzione di egloghe e di capitoli in terza rima fra le sue liriche è scelta che si muove in questo senso: l’egloga (oltre a riprendere Virgilio) è un modo per porre in dialogo il Petrarca italiano col Petrarca latino (la Lingua italiana petrarchista riprende un tema, quello bucolico, che Petrarca affrontò solo in esametri latini), ed il capitolo in terza rima recupera un metro per il quale Petrarca fornisce un modello con la serie di Trionfi (di cui ho avuto modo di parlare in queste pagine digitali, e che nella raffigurazione delle processioni trionfali – sul tipo di quelle dei generali vittoriosi nella Roma Antica – è una delle piú eclatanti incarnazioni dell’Umanesimo – o Preumanesimo – petrarchesco).
Umanesimo e Classicismo, dunque: Rinascimento, insomma.
In questa stessa direzione va il teatro (soprattutto comico) ariostesco: ed è davvero centrale il ruolo – simile per certi versi a quello svolto da Machiavelli – che Ariosto ha nella Storia del Teatro Italiano (si pensi, solo per un esempio, a “La Lena”). In questa stessa direzione vanno le Satire: opere poetiche di chiara derivazione – dallo stile al titolo, se anche non ci si voglia poi addentrare nelle tematiche – oraziana e generalmente latina. In questa stessa direzione va l’“Orlando Furioso”: opera di geniale sincretismo fra i modelli italiani – ed anticofrancesi – e quelli classici; opera, tra l’altro, di piacevolissima leggibilità e straordinariamente avvincente: si legga – se non ci si vuole addentrare troppo nel meraviglioso endecasillabo ariostesco – la rinarrazione fattane da Italo Calvino (vero e proprio atto d’amore per un Maestro immortale), o si guardi lo sceneggiato R.A.I. di Ronconi (ripresa storpiata ma bellissima del labirintico ed immersivo accadimento teatrale dello stesso Regista).
E le liriche – pubblicate postume (e dunque private, o quasi, per tutta la vita dell’Autore) – sono come un “Orlando Furioso” piú piccolo, sussurrato, nobile ed amabile come un ritratto in un medaglione.