Voce di Popolo

Soro Bruno 1di Bruno Soro
www.cittafutura.al.it

 

“Popolo italiano…Corri alle armi… e dimostra la tua tenacia… il tuo coraggio… il tuo valore! ….”
(10 giugno 1940, dal discorso di Benito Mussolini al Popolo italiano in occasione della dichiarazione di guerra. I puntini di sospensione sono le pause dovute ai lunghi applausi e alle grida del popolo in delirio)

 

Vorrei che tutti quegli “sfacisti” animati dallo spirito secondo il quale “a casa mia comando io” e inneggianti alla volontà di dare “voce al popolo” (invocando anche in Italia, ma non solo, l’indizione di un referendum sulla permanenza o meno nell’Unione Europea), rammentassero che la “democrazia”, parola della quale oggi, a cominciare dai direttori di qualche quotidiano si riempiono la bocca, è sì un insieme di “diritti”, tra cui quello del voto, ma anche un insieme di “doveri”, tra i quali il primo è il rispetto delle regole. E la prima e più importante regola della democrazia è sancita dalla Carta Costituzionale, laddove, all’art. 1, stabilisce che “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, e all’art. 75 sancisce che “Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]”.

Se per Bismarck i trattati erano solo “pezzi di carta” (e poi si è visto com’è finita), la nostra democrazia non è “diretta”, ma “rappresentativa”, e l’adesione o la rescissione dei trattati internazionali è materia di competenza del Parlamento. Pertanto coloro che vogliono cambiare le regole e portare gli italiani al voto sulla permanenza o meno dell’Italia nella UE debbono prima cambiare i rappresentanti, poi cambiare le regole e infine indire il referendum.

Tutto il resto è fuffa.
Marianna 1968Potrei sbagliarmi, ma l’esito del referendum nel Regno Unito (la cui prima conseguenza è di avere dato impulso alla sua implosione) e quello delle recenti elezioni amministrative in Italia è la manifestazione evidente dell’esistenza di un conflitto generazionale sul tipo, per intenderci, di quello che oppose i giovani del ’68 alle generazioni precedenti. La percentuale dei voti ottenuti nel referendum inglese sotto i 35 anni e quella sopra i 65 è inequivocabile: le generazioni più giovani vogliono restare in Europa, cambiandone le regole, mentre quelle più anziane vorrebbero tornare più giovani e votano per tornare alla guerra. In Italia, il voto delle generazioni più giovani (assieme a quello dei meno giovani delle periferie) è andato al cambiamento, mentre quello delle persone più anziane e privilegiate dei centri storici si è espresso per la conservazione (dei privilegi).

A cosa porterà questo clima nei prossimi mesi (anni) è presto per dirlo, ma azzardo la previsione che il voto di domenica in Spagna non si discosterà di molto da questa interpretazione.

Il conflitto generazionale ruota, a mio avviso, attorno ad una questione che sta Euro a pezziassumendo una grande importanza: il blocco dell’ascensore sociale. Riflettevo proprio nei giorni scorsi con alcuni colleghi professori universitari (solo una piccola cittadina come Novi ne conta più di una decina) sul fatto che la mia generazione, quella che va dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ai primi anni ‘70, ha dato la possibilità ai figli di “operai e casalinghe” di diplomarsi, laurearsi, trovare facilmente un’occupazione e di raggiungere le più alte sfere della cultura, della politica e del potere economico. Oggi, grazie alla globalizzazione, i giovani di famiglie che appartengono alle classi sociali medio-basse hanno maggiori occasioni per emergere, ma per cogliere tali occasioni debbono guardarsi attorno avendo come riferimento il mondo. E’ meglio? E’ peggio? Non saprei, di certo è meno rassicurante, e l’incertezza sul proprio futuro è la molla che spinge i giovani a ribellarsi e gli anziani a cercare di conservare ciò per cui hanno lottato a partire dal ‘68.