È strana la sorte che la Fama ha destinato ad Agnolo (Angelo) Ambrogini (detto “il Poliziano” in quanto era ‘originario di Montepulciano’, ossia ‘poliziano’). Almeno tutti coloro che abbiano compiuto studî superiori presso un Liceo ne hanno studiato il nome e qualche vicenda, ed a sentirlo nominare hanno certo la sensazione che si tratti di qualcosa di familiare e sanno magari (i più diligenti ai tempi della Scuola) citare qualcosa di ben circostanziato sul suo conto (è sovente l’amicizia con Lorenzo dei Medici a rimanere impressa, o magari un certo stile poetico di vaghissima eleganza); e spesso nulla più: Ambrogini è uno di quegli autori che si studiano – giacché si deve – ma non si leggono, se non da parte di studiosi o grandi appassionati.
Eppure è stato uno dei maggiori poeti italiani – forse proprio il maggiore – del XV secolo. E mi permetto di ricordare che «poeti italiani del XV secolo» significa non poco: l’Umanesimo, preludio straordinario del Rinascimento, è uno dei piú grandi contributi che l’Italia abbia dato al Mondo delle Arti e del Pensiero ed è nella considerazione comune (soprattutto all’estero, e certamente hanno ragione) “il piú italiano” fra i movimenti culturali.
Il Poliziano è un esempio perfetto e quasi totale di umanista: studioso profondo e coltissimo delle Culture greca e latina, autore egli stesso di opere in Latino, poeta raffinatissimo in Volgare italiano, cultore della Filosofia e filosofo neoplatonico a sua volta, amico del grande Lorenzo il Magnifico e figura di spicco (pur con alterne fortune) della Corte granducale a Firenze. Le riflessioni filosofiche sono raccolte principalmente nei “Miscellanea” (sorta di ordinato zibaldone, in cui ogni aspetto dell’indagine esistenziale morale e spirituale è trattato con una sorta di rigorosa esaltazione), quelle letterarie nelle “Sylvaæ” (prolusioni latine in versi esametri, che il Poliziano usava ad inaugurazione dei corsi di Letteratura Latina e Greca); dal punto di vista della lirica, spiccano i componimenti in Latino del “Liber epigrammaton” e quelli in Volgare delle “Rime”.
La più celebre delle opere volgari di Ambrogini è comunque il poemetto “Stanze per la giostra”. Si tratta di due lunghi Canti in ottave dedicati alla figura di Giuliano dei Medici, fratello del Magnifico; in realtà è lungo solo il primo dei Canti, perché il secondo rimase incompiuto; il progetto originario avrebbe dovuto cantare amori e gloria di Iulio (il personaggio di Giuliano): il primo Canto – idealmente ispirato dalla figura mitologica di Cupido – narra della misoginia iniziale del protagonista che poi però s’innamora della bella Simonetta Cattaneo, il secondo – ispirato da Lorenzo dei Medici – avrebbe dovuto raccontare il torneo cui Iulio partecipa per onorare la sua Simonetta; il poemetto rimase incompiuto a causa della morte di Giuliano dei Medici nella congiura fiorentina dei Pazzi. Le idee del Neoplatonismo sono meravigliosamente rifuse nell’ordito dell’opera, dove l’Amore è il momento iniziale (ed iniziatico) del nobile cammino che sale al Bello.
Opera forse meno famosa ma di non minore importanza (ed anzi fondamentale per certi sviluppi storico-artistici nella Letteratura e nella Musica oltreché per lo sviluppo che l’Estetica ha avuto da lí in avanti) è la “Fabula di Orfeo”. Si tratta per diversi aspetti di un’opera speculare rispetto a quella appena descritta: qui la morte di Euridice porta suo marito Orfeo ad intraprendere un cammino di discesa verso il baratro degli Inferi, davanti alle cui porte canta sconsolato inducendo le Potenze di quei regni a liberargli l’amata, con la quale riprende il cammino in ascesa col preciso divieto di rivolgersi a guardare l’abisso ed a guardarsi a vicenda finché la salita non sia terminata, divieto naturalmente subito infranto dal troppo amore o dalla poca fiducia, che perdono nuovamente e per sempre l’adorata moglie ad Orfeo, il quale sconsolato cade nell’umor nero e nella misoginia, colpa per la quale le folli ministre del dio Bacco lo smembrano in un canto di furore. Si tratta di un’opera teatrale in versi, e si può immaginare l’effetto che un’opera cosí piena di allusioni simboliche e cosí coinvolgente dal punto di vista emotivo possa aver avuto sul pubblico, che con tutta probabilità conosceva le “Stanze” ed avrà sentito nell’“Orfeo” tornare temi ed idee.
E, come spesso accade nella nostra Letteratura, le opere incompiute non sono tronconi morti: ma il fatto che siano incompiute è anzi elemento di svolta di una trama che comprende tanto loro quanto il loro autore.