A urne appena chiuse, forse contro corrente alla neonata e pressante attenzione al fenomeno, ma senza voler sminuire i risultati eclatanti (più Torino che Roma) oppure solo importanti (nel resto delle città con forte incremento di consensi, pur senza vittorie o ballottaggi), alcune riflessioni sul M5S con un taglio (senza presunzione alcuna) politologo più che cronista. Ovviamente per come lo leggo io. Un esercizio che manca nei vari dibattiti già in corso e precedenti. E che è rivolto prima di tutto agli amici ancora attivisti, in parte commentatori di questo social.
L’intento è cercare di analizzare molto, molto brevemente se i dogmi dell’origine si sono realizzati oppure se il realismo e pragmatismo ha preso il sopravvento. E trarne le conclusioni.
Forse aveva ragione ad esempio Pizzarotti che da sempre predica l’attivazione di una forma di congresso dove si decida democraticamente e apertamente organizzazione, regole, strategie, programmi. Non deve essere per forza un partito, ma un soggetto poco organico non può governare le più grandi città e ancora di più il paese intero.
La riflessione, maturata già prima dei risultati, parte dalle origini e di alcune parole d’ordine:
• cittadini, prendete in mano il vostro destino comune,
• gli eletti saranno i portavoce,
• uno vale uno, si decide tutto insieme,
• massima trasparenza tutto in streaming.
E dalla mancanza assoluta di capacità critica.
Il Movimento fatto di “belli, puliti e profumati”, quale offerta politica oramai pluriennale, ha realizzato i suoi fini? E’ rimasto fedele alle origini o è in metamorfosi? O si deve aspettare “una lunga marcia”, per citare Mao Tze-tung?
L’offerta politica nuova aveva come primo obiettivo incalzare i cittadini a riprendere direttamente in mano i propri destini comuni sia come elettorato attivo (impegnandosi e candidandosi) sia come elettorato passivo (votanti del nuovo). Dalla lettura dell’affluenza al voto, il risultato non è incoraggiante. Circa il 50% dei cittadini non vota. L’offerta politica non ha attecchito; ci si litiga il restante 50% degli “affezionati al voto”, tra i partiti e movimenti, tramite traslazioni.
Allo stesso modo, si presentano liste del Movimento in pochi comuni e più che altro in città grandi e nel loro hinterland: non è un Movimento da Paese (in un’Italia degli 8 mila comuni) ma da poche città. L’elettorato attivo non si mette in gioco. Preferisce lasciare fare ad altri. Meglio la rappresentanza piuttosto che la diretta.
Gli eletti saranno portavoce: le decisioni saranno prese dalla base e attuate dagli eletti. Via, via le votazioni si sono fatte sempre più scarne e meno influenti. Tanto che dei dichiarati 100 mila iscritti, partecipa circa un 25%. Ci si è mai domandati il rimanente 75% che fine ha fatto? Risposta: non interessa! La promessa trasparenza non è da meno. Si assiste in diretta streaming e tv alle direzioni magari di partiti (leggi PD), ma del movimento ne ricordate qualcuna?
Nei consigli e aule parlamentari si vota utilizzando tre tasti colorati: verde approvo, rosso voto contro, bianco mi astengo. Gli eletti avrebbero dovuto essere una specie di flipper a comando remoto. Il comando doveva essere in mano agli iscritti che scegliendo il colore decidevano il comportamento.
I candidati, anche delle città capoluogo di regione, li hanno scelti una sorta di élite e non la base attraverso piattaforme facilmente modulabili all’occorrenza (già utilizzate alle regionali discriminando gli iscritti per residenza). Valga per tutte l’esperienza di Milano, dove la scelta della base è stata cassata in corsa. La costituzione ad esempio del Direttorio e dei Consulentim la candidata Raggi, sono dei nominati e non scelti dalla base. L’uno vale uno, declinabile come “tutti per uno e uno per tutti” si è ridotto al solo “uno per tutti”. Scelte strategiche a correzione del dogma, più da apparato di partito che da movimento duro e puro. Una puntuale frase di Vittorio Bertola di Torino (critico storico caduto in disgrazia o autodisgrazia) coniugò il “uno vale uno in non vuole dire uno vale l’altro”. E così oggi è! Si potrebbe dire che anche i flipper non sono tutti eguali.
Infatti, sapientemente le due candidate maggiori, Raggi e Appendino, palesemente hanno doti che forse altri non avrebbero avuto. Senza di loro, i risultati sarebbero stati gli stessi, o hanno fatto la differenza? Due ex consigliere comunali a fine mandato, sconosciute agli elettori, ma sicuramente un minimo di esperienza sul campo l’hanno fatta. Bene o male, non so. Spero bene per loro, nel senso di aver studiato e appreso in primis il funzionamento della macchina comunale, delle aziende partecipate.
Le aspettative degli elettori saranno molto alte e pretese subito, ma prima di capire dove sei e cosa serve, nonché trovarti ad attivare decisioni già prese da chi ti ha preceduto, sono la realtà. Per chiunque vinca. La credenza che basta arrivare sulla poltrona e tutto d’incanto muta e si risolve (cosa che molto iscritti pensano reale), non esiste. La campagna magari improntata sul chi c’era prima non capiva nulla, cosa ci vuole per far funzionare tutto a puntino, tipica delle elezioni semplicemente si trasforma in un boomerang alla prima prova. Immaginate se la Raggi il 20 prossimo entrasse in comune presentandosi semplicemente: buon giorno, sono il nuovo sindaco. L’ipotesi che arriviamo e si crea una sorta di “8 settembre”, tutti a casa, tutto rinnovato non esiste. Si scontra ad esempio col fatto che dirigenti, funzionari e impiegati sono stati assunti dal comune e non si possono ne licenziare, ne discriminare togliendo loro responsabilità di uffici e incarichi. Per legge e contratto. Ogni dirigente ha diritto a un incarico adeguato e retribuito. E’ possibile assumere a termine massimo di durata del mandato, dirigenti in più ma sarebbe come pagare il doppio di stipendi. La Raggi conosce questo stato di cose?
Roma non è solo una città, ma è la Capitale e il capoluogo deputato a governare la nuova Area vasta (ex provincia) ben 121 comuni, e toccherà a lei in primis. Lo sa? Altro che solo città! Un sincero e affettuoso In bocca al lupo.
Infine, il M5s deve guarire dalla malattia considerata infettiva del “leaderismo”, nessuno deve essere leader, tutti eguali, poiché è sufficiente essere portavoce. La paura che qualcuno “faccia ombra” ha creato problemi e invidie latenti (Pizzarotti è stato per questo discriminato, da sempre). Quando i media si avventurano nel pronosticare un Di Maio prossimo candidato for president, c’è chi storce il naso: chi ha detto che sarà proprio lui. Si sa, in fondo sono tutti uomini e donne, con tante qualità e altrettante debolezze e una sana e umana ambizione, presente in qualsiasi aggregazione di persone, Movimento compreso.