San Rocco [Il Superstite 280]

Arona Danilo nuovadi Danilo Arona

 

Chissà se ce la faccio a completare i ricordi di Tony Frisina a proposito dell’Oratorio San Rocco… Perché capita che la mia memoria, per il primo principio della termodinamica del gerontocomio, funzioni meglio sul lungo che sul breve, ovvero ricordo quasi perfettamente i miei anni ’50 che non quello che ho mangiato tre sere fa. Perciò confermo in pieno quanto scritto da Tony nel suo “tuffo nel passato” del 21 febbraio a proposito di Don Menegus, Moro, Rico e Natale, ma posso aggiungere qualche succoso particolare. Vero è che l’inarrivabile Rico (o Ricu, come in tanti lo apostrofavano) s’inalberava come un montone al suono della frase littoria, ma la “nostra” faceva più o meno: Eia Eia Eia Gala Gala (pausa) Eia Ricu. Dico “nostra” perché a spanne la mia frequentazione dell’Oratorio San Rocco è antecedente di pochi anni rispetto a quella di Tony, quindi sono accettabili le varianti evolutive delle locuzioni storiche. E confermo: al suono delle magiche (per lui) parole, Rico-Jekyll si trasformava in Ricu-Hyde prendeva a rincorrerci e, se ci beccava, erano dolori per le nostre orecchie che lui amava storcere sino farci piangere dal male.

Rico, Natale e Moro erano gli “originali” dell’Oratorio, ma il pezzo da novanta della mia epoca si chiamava Don Troncon, sguardo teutonico, gran produttore di tessere della GIAC (leggi Gioventù Italiana Azione Cattolica) e portatore sano del pensiero dominante “senza la tessera non frequenti San Rocco”. E così accadeva.

Sono tante le tessere della memoria riferentesi a San Rocco. La più vivida resta il cinema. Doppia versione: invernale, in una sala confinante con il cortile immortalato nelle foto di Tony, e “arena estiva”, appunto il cortile stesso. D’inverno accedevi al salone, dopo aver pagato il biglietto aumentato di 5 lire giustificate come “soccorso invernale” e salutando calorosamente l’operatore di macchina che si chiamava Giovanni (mio padre lo apostrofava di solito così: «Am’racumond, Giuani, fa’ nenta di casen!», memore che una sera il film proiettato si componeva del primo tempo dei Tre Moschettieri e il secondo tempo di un Zorro in bianco e nero...), uno stanzone rettangolare riscaldato in casi di freddo estremo da una stufa a legna il cui tubo di raccordo pendeva pericolosamente sulle teste di incauti spettatori delle ultime file.

Una qualsiasi sera al cinema San Rocco, tanto d’inverno che d’estate, era spettacolo felliniano. Prima della proiezione qualcuno tra i ragazzini più raccomandabili frequentanti l’Oratorio passava tra le sedie con un carico di stringhe di liquirizia e gazzose Frau (a me i preti non lo proposero mai…) e in tanti facevano acquisti, usando prima la stringa come cannuccia per bere e poi sgranocchiandosi con voluttà la medesima. Siccome poi restava come residuo in vetro la bottiglietta vuota, a un certo punto della serata, di solito qualche minuto dopo i titoli, partiva un lancio collettivo di materiali vetrosi contro lo schermo che andavano a finire, qualche volta rompendosi, sul sottostante palco in legno: una sorta di rito collettivo, un po’ vandalico, degno del Signore delle Mosche, sul quale Don Troncon e soci non avevano stranamente nulla da eccepire.

Altri momenti memorabili: quando la stufa prese fuoco e il tubo di raccordo crollò di sotto con una nuvola di fuliggine che intossicò parecchi astanti e la proiezione dovette interrompersi; quando mio padre legnò a sganassoni un giovinastro che gli aveva urlato contro Va a caghè, platon!; quando Rico, che aveva di tanto in tanto l’abitudine di mettere un braccio sulle spalle di qualche ragazzo seduto nel buio – lo faceva senza malizia, perché era un bambinone kinghiano nel corpo di un adulto… – si prese una gomitata nelle palle da uno che sembrava sì un ragazzo, ma in realtà era un nano di 32 anni detto “Montagna”.

Al cinema San Rocco vidi cose che voi umani... A parte il famoso filmTarzan composto da due rulli differenti, abbondavano i lungometraggi di Tarzan (Johnny Weissmuller e Lex Barker), Jim della Giungla (con la scimmia Tamba che si contrapponeva dinamicamente a quella più famosa di Tarzan, Cita), musicarelli con Luciano Taioli e Mario Lanza, scatenatissimi peplum cross-over tipo Zorro contro Maciste e Ercole sfida Sansone, Cric e Croc come venivano appellati in Italia Stan Laurel e Oliver Hardy e il poco conosciuto Bomba, figlio di Tarzan.

Lì si materiò il mio immaginario filmico, le cui tessere fondamentali si chiamavano La terra contro i dischi volanti, Guerra tra i pianeti, Nel regno degli uomini talpa e Jim della Giungla e gli uomini scimmia.
In quel lungo periodo i miei amici prediletti erano Giulio Traversa e Mauro Ercole, con cui avevamo fondato il Trio Imbattibile. Ce la tiravamo da matti ma cascavamo come pere immature quando il parroco ci beccava per fare i chierichetti. Non eravamo contrari per principio ma non ci piaceva affatto indossare la “cotta”, soprattutto quella rossa indicata per le massime festività. Io mi vergognavo e Giulio, già allora detto Il Biondo, sembrava proprio un putto angelico, mentre Ercole (non lo chiamammo mai per nome) dimostrava sempre un’astuzia diabolica nel defilarsi.

La nostra carriera di chierichetti terminò precocemente quando bevemmo anzitempo il vino sacro destinato al cerimoniale e un turibolo pieno d’incenso incandescente sfuggì di mano a Giulio andando a schiantarsi contro una parete laterale. Tutta la gente in chiesa – messa solenne di mezzogiorno – esplose in una risata e noi fuggimmo in sacrestia, inseguiti dagli occhi furenti e quasi demoniaci del parroco.

Se la memoria mi assiste, magari a San Rocco ci torniamo.