“Cavagnolo, un piccolo centro di poco più di duemila abitanti a pochi chilometri da Torino, situato tra le colline del Monferrato, dove la vita scorre tranquilla e tutti conoscono tutti”.
Comincia così il video realizzato da Marco Balestra e Roberto Cavallero, già autori del docufilm “AeternitAS – La forza di chi combatte”, sulla Saca, poi divenuta Eternit, azienda che lavorava la crocidolite, detta anche “amianto azzurro”.
Una fabbrica che, al suo nascere, sembrò un vero e proprio miracolo per quel territorio, caratterizzato da attività prettamente rurali.
Una fabbrica che, realizzata nel 1946 da due ex dirigenti Eternit di Casale Monferrato, coinvolse non solo Cavagnolo ma anche diversi paesi limitrofi arrivando a toccare il massimo dell’occupazione negli anni ’50 con 320 dipendenti all’attivo.
Una fabbrica che, come quella di Casale, fece conoscere agli abitanti di Cavagnolo, ma non solo, il dramma del mesotelioma pleurico. La malattia causata dall’amianto, la fibra killer che non perdona.
“Negli anni ’50 la curva con i dati della lavorazione dell’amianto si impennò vertiginosamente arrivando a toccare, nel 1970, 118.536 tonnellate per poi scendere quando ad imporsi fu la lavorazione della plastica” racconta, nel corso del video, Giuseppe Valesio, giornalista del luogo che la storia della Saca ha voluto raccontarla nel libro “La Nuvola di Polvere”.
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Per dieci anni, dal 1946 al 1956, la fabbrica si chiamò, dunque, Saca poi fu assorbita dall’Eternit. Adesso non c’è più niente. Al suo posto sorge un supermercato ma le morti causate dall’amianto continuano.
“All’epoca avere un’azienda così in un paese come questo sembrò una fortuna” racconta Giuseppe Valesio “la gente anche dai paesi limitrofi lasciò la terra per andare in fabbrica. Si sapeva che lì si lavorava un materiale nuovo, robusto, resistente al fuoco, praticamente indistruttibile. Era l’Eternit che la gente lavorava anche a mani nude, impastando amianto e cemento, ma senza sapere che era veleno. Un materiale che si sbriciolava anche facilmente, diventando polvere grigia. Polvere che si depositava dappertutto.”
Negli anni ’80 la fabbrica chiuse i battenti ma le “ferite nei polmoni restarono così come la narici violate da quei sottili fili di morte” racconta ancora Valesio (passi tratti dal suo libro).
Oltre cento, nel corso del tempo, le persone morte per mesotelioma pleurico a Cavagnolo, un centro che, così come Casale Monferrato, ha dovuto subire la beffa della caduta in prescrizione ad opera della Cassazione, novembre 2014, del reato di “omicidio volontario continuato e pluriaggravato”. Al centro dell’attenzione, come a Casale, l’imprenditore svizzero Schmidheiny.
L’amministrazione comunale del piccolo centro, nel 2011, aveva anche deciso di accettare due milioni di euro come risarcimento dal magnate svizzero. Con una clausola, però. Che Cavagnolo non si costituisse mai più parte civile in eventuali cause contro Schmidheiny.
Ma sono soldi che non fu possibile utilizzare perché il risarcimento era vincolato dal Patto di Stabilità.
Le operazioni di smaltimento, però, sono state avviate già da alcuni anni anche se di amianto ne resta ancora. E resta, soprattutto, la voglia di giustizia di questo piccolo centro perché “chi ha lavorato ha pagato, chi ha lavorato per quei quattro soli ha pagato con la sofferenza ed anche con la vita. Gli altri, quelli che sulla pelle delle persone si sono arricchiti…. attendiamo che giustizia sia fatta” conclude Giuseppe Valesio con lo sguardo rivolto allo spettatore.
Dietro di lui la targa commemorativa, datata 28 aprile 2009, per la “giornata mondiale vittime amianto” in ricordo “delle vittime e del dolore che l’amianto ha causato nella comunità di Cavagnolo”.
Roberto Cavallero