Non si può neanche morire in pace

Patrucco Giancarlodi Giancarlo Patrucco
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Quelli come me, nati negli anni 40, 50 e 60 del ‘900, quando arrivò il momento del lavoro – e per tanti come me arrivò in fretta – si trovarono di fronte a un vero e proprio patto che faceva più o meno così: tu ti impegni a dare il meglio di te nello svolgimento delle mansioni che ti sono e ti saranno affidate, per un certo numero di ore settimanali; io – Stato o privato – mi impegno a corrisponderti un salario, con il quale potrai mantenere la famiglia e assicurarle un futuro. Avrai diritto alle ferie, alla Cassa Mutua se stai male e a una Cassa Pensione quando ti ritirerai dal lavoro. Quest’ultima sarà amministrata dallo Stato, che riscuoterà i tuoi contributi e che ti riconoscerà un’indennità di liquidazione al momento del ritiro, la corresponsione dell’assegno mensile finché vivrai e, in caso di morte, non farà mancare il sostegno al superstite – sia esso la vedova o il figlio con handicap.

Potremmo ragionare a lungo sull’adeguatezza del salario, sulle condizioni di lavoro, sulla chiusura di fabbriche e conseguente cassa integrazione. Potremmo anche disputare a lungo sul rispetto degli impegni da parte di certi lavoratori pubblici, sui certificati facili e sull’assenteismo. Rimane comunque un punto: la stragrande maggioranza dei lavoratori pubblici e privati ha rispettato fedelmente quel patto e ha tagliato, onorevolmente, il traguardo della pensione. Dopodiché, ha iniziato l’ultima parte della propria vita, conscia del fatto che era anche quella più fragile perché aveva consumato la sua strada, compiuto il proprio percorso, terminata la propria parabola di progresso sociale. Non c’erano altre opzioni possibili, se non quella del piccolo lavoro sottobanco. Meglio un po’ di volontariato, allora, oppure coltivare passioni a lungo trascurate, far ballare i nipotini sulle ginocchia, tirare un po’ più tardi la sera.

Per vivere (e in qualche caso sopravvivere), si contava sul patto iniziale e sulla garanzia a cui lo Stato non sarebbe mai potuto venir meno. E, qui, lo Stato cominciò a buggerarci.

Parte la Grande Crisi, la crisi epocale. Banche e banchieri dilapidano paccate di miliardi. Industriali e finanzieri d’assalto si rifugiano nei vecchi paradisi fiscali e cercano nuovi paradisi dove quel patto non esiste o, se esiste, può essere facilmente aggirato. Nascono nuovi termini per descrivere il fenomeno: delocalizzazione, globalizzazione, mondializzazione, economie emergenti, default, spread, l’economia dei voucher e delle partite IVA.

Nascono anche nuove preoccupazioni nei Governi. La Commissione Europea punta il dito sulla riduzione del debito pubblico, da ottenere tramite il contenimento delle spese, l’aumento delle entrate fiscali, il pareggio di bilancio e la lotta agli sprechi.
Sprechi? Beh, in Italia gli sprechi sono tanti e talmente evidenti che qualcuno ne ha riempito voluminosi tomi. Si nomina anche un Commissario a quella che viene chiamata pomposamente “spending review”. Siamo sempre stati veloci a copiare dall’inglese. I nostri governanti non conoscono bene neanche l’italiano, ma quanto all’inglese chi li batte più?

Eppure, nonostante il nome pomposo e la grinta dei Commissari che si susseguono, la spending review non decolla mai veramente. Ci sono sempre resistenze corporative, difese di casta, diritti irredimibili e poteri irriducibili. Così, quando tagliare si deve, si spara quasi sempre nel mucchio delle pecore. Quelle che possono anche invocare diritti validi quanto gli altri, ma non hanno uno straccio di potere in grado di difenderli dalla tosatura.

I pensionati delle generazioni dette all’inizio, anni 40, 50 e 60 del secolo scorso, sono iPensionatipiù facili e i più esposti. Non sono andati in pensione giovani (si fa per dire)? Non ci sono andati con il retributivo? Non hanno garanzie che le generazioni dei più giovani di loro, riforma su riforma, non vedranno più? Non è forse vero che, in un Paese nel quale i redditi si abbassano velocemente, una pensione di 1.500 euro lordi è un piccolo tesoro? E che una pensione di 2.000-2.500 euro lordi è uno sproposito rispetto ai redditi da fame di molti altri? Così, iniziano i provvedimenti di “riduzione delle disuguaglianze”: riduzione verso il basso, che verso l’alto non si può davvero.

Si comincia dal blocco dei salari del pubblico impiego e delle pensioni. In aggiunta, per i redditi “spropositati”, un contributo di solidarietà. Dice il Governo: non volete essere solidali con i meno fortunati? Dice la Corte di Cassazione: beh, non è proprio Costituzionale… Va bene, riconosce il Governo, faremo uno sforzo ulteriore. E cede qualche briciola qua e là. Risultato: una tassa occulta, anche se il premier si vanta di averle abbassate, le tasse. Forse basterebbe intendersi sulle parole, ma con tutto quell’inglese chi ci riesce più?

Infatti, passa un po’ di tempo e arriva il bail in. Sul momento, mentre saltano la Banca Etruria e le sue disgraziate consorelle, sembra che nessuno ne riconosca la paternità: è la Commissione Europea… D’accordo, ma avrà approvato anche l’Italia, oppure no? Oppure sì. L’Italia, la nazione tra le maggiori al mondo per propensione al risparmio, ha consentito all’introduzione di una norma che stabilisce come, in caso di crack bancari, contribuiscano al pagamento dei debiti anche i correntisti oltre i centomila euro. Come dire che, se si guasta un treno, alla sua riparazione contribuiranno anche i viaggiatori con biglietti di prima classe. Che c’entrano loro? Niente, ma visto che viaggiano in prima classe un po’ di soldi li avranno.

E non è finita qui. In questi ultimi giorni la Cgil sparge una voce allarmante. Pare che il Governo voglia rivedere le pensioni di reversibilità. Il primo membro di governo che viene intervistato non si esprime: parli il Ministro del Lavoro. E il Ministro Poletti dichiara: le solite esagerazioni. Vogliamo soltanto rivedere alcune anomalie. La Cgil rincara: l’intento è quello di misurare l’assegno di reversibilità sulla base dell’ISEE, che mette insieme tutti i redditi, compresa la casa di proprietà.

Una batosta, visto che l’Italia è anche la nazione con il maggior numero di proprietari. Poco meno del 90%, pare.
Dice il premier: non possiamo accontentare tutti. Già. Ma i pensionati lasciateli morire in pace. Senza tormentarli fino all’ultimo respiro.