«Niente è tanto incredibile quanto la risposta a una domanda che non si pone»
R. Niebuhr, Il destino e la storia, Bur, Milano 1999, p. 66
Qualche giorno fa ho incontrato un amico di amici, per chiedergli un chiarimento in merito a una questione, più o meno professionale, che mi stava (e mi sta ancora) molto a cuore.
La mia richiesta, molto precisa e inequivocabile, ha ricevuto una risposta non altrettanto chiara. Prima di arrivare faticosamente al nocciolo della questione, l’amico di amici l’ha presa, per così dire, un po’ alla larga. E’ partito dal ruolo, suo e della realtà che presiede, ripercorrendone i momenti salienti e per molti versi interessanti. Peccato che non glieli avessi chiesti, anche perché li conoscevo già. E comunque, prima di avere un barlume di risposta, ho dovuto attendere pazientemente un bel tre quarti d’ora. In sintesi: ho preso e me ne sono andato.
Qualche mese fa mi è invece capitato di parlare con un professionista del settore finanziario. Alla mia richiesta di delucidazioni in merito ai sommovimenti del mercato azionario, ho ricevuto da lui come risposta un interminabile pippone sui comportamenti dell’investitore poco avveduto (e lì ho capito che mi considerava uno di loro, senza ombra di dubbio), seguito da un peana imbarazzante sulle meraviglie del suo istituto di credito (“Oste, è buono il vino?”). Avevo fatto un’altra domanda, ma chi se ne frega: al corso dei top manager qualche genietto della comunicazione probabilmente gli ha spiegato che le persone non si ascoltano, ma si “indirizzano”. In sintesi: ho ri-preso e me ne sono ri-andato.
Ho fatto questi due esempi, ma ne avrei anche altri, a gentile richiesta.
A forza di considerare la comunicazione come una materia fondamentale, addirittura da insegnare (ma figurati!), non ci si ascolta più veramente. Comunicare è diventato una tecnica, che insegna sempre più spesso a dare risposte a domande che non si pongono. Un’assurdità, in quest’epoca che idealizza la comunichéssion, ma sta uccidendo la comunicazione.