Ieri Angelo Marenzana lo ha ‘evocato’ nel suo Straniero: di seguito il racconto Scimmia di luce e di follia, di Giorgio Bona, contenuto nell’antologia Come foglie sugli alberi, curata dallo stesso Marenzana e da Enzo Macrì per conto dell’editore veronese Emanuele Delmiglio.
Buona lettura, e grazie all’autore e ad Angelo Marenzana.
L’ingegner Ermanno Benzi era andato a letto tardi quella sera. Non stava più nella pelle. Era nervoso, agitato. La moglie lo svegliò un paio di volte turbata. Si alzò a bere ed era in un bagno di sudore.
L’Italia stava per entrare in guerra e suo fratello era già stato chiamato alle armi. Eppure non era quella la ragione della sua preoccupazione. L’evento della domenica aveva scaldato gli animi della citta e lü, propi lü, aveva ritrovato lo spirito e la balenghite dei giorni migliori.
Porrati, Milano II, Ticozzelli, Lazoli I, Carcano, Smith; Torricelli, Della Casa, Grillo, Poggi, Baloncieri.
Era la formazione della sua squadra, quella che teneva alto il blasone della città.
8 marzo 1915. Sarebbe stata una data da ricordare. Alessandria avrebbe affrontato la compagine del Milan che veniva dalla grande metropoli in riva a Tanaro per far cagare le ostie, per dare la biada ai paisan, ai uargnac, quelli che la spüssa suta la canappia ce l’hanno addoss la spüssa quelli con la pell cörta, cula che t’sari i’oğğ e as dröba al boğ del cǖ quand cureši me ‘na lüdria.
Ma la voglia che apre gli occhi e accende il sangue qui non si spegne.
Per tutta la domenica mattina al bar dello sport non si parlò d’altro. L’ingegner Benzi detto Strassapulè presidente dell’Alessandrina, si ritrovava con la sua allegra compagnia, Gep al Frè il fabbro, Luigi Rangone al sartù e l’avvocato Tiziano Bortolazzi detto la nasa.
Era il ritrovo dei cagamaretti della città, quella vietata ai gnaru, ai giargianesi, ai trapiantà si dice di quelli venuti da laggiù, perché si sono mescolati e hanno attecchito come il cespo della brigna.
A mezzogiorno al bar dello sport era l’ora del vermouth. Eppure il conflitto era alle porte e molti erano chiamati al fronte. Lo scoppio della guerra minacciava la sospensione del campionato e, peggio ancora, lo scioglimento di alcune società di calcio, perché molti giocatori erano invitati a prestare servizio sotto le armi.
Anche la compagine alessandrina viveva questo dramma. Una buona parte dei suoi giocatori era in partenza, altri avrebbero dovuto garantire la loro permanenza. In ogni caso girava voce che il torneo sarebbe stato sospeso, ma in città la febbre aveva preso il sopravvento, era molto forte, più forte del cannone al fronte. Il football era diventato un gioco di moda, ma anche di passione e di forza, anzi, ormai non era più una passione. Era un’ossessione. In città i mandrogni avevano la bocca calda. Dopo aver messo ko Vercelli e Casale, adesso sognavano di battere il Milan.
Non c’è due senza tre…
Al bar dello sport non si perdevano le buone abitudini. La domenica era sempre così. Nella sala vi era un vociare assordante e persino i giocatori più accaniti di carte avevano dato forfait ed erano coinvolti nelle più accese discussioni. Manuelino, il barista, con quei baffetti e pizzetto che sembravano un passaggio di formiche suta la canappia, al capiva ciò per broca. Chiedevi un vermouth e ti arrivava un grigioverde. Grandi discussioni, esclamazioni, pronostici. Giunse anche voce che qualcuno avesse cercato di comprare la partita. In questa città non era poi così difficile fare affari. Il commercio era nell’indole dei mandrogni. Ma comprare una partita, no, quello era un sacrilegio, meglio una disgrazia.
Alle 14 la folla era già assiepata ai bordi del campo e le loro grida frastornavano i giocatori facendogli sentire il fiato sul collo. Il pubblico si stava logorando nell’ansia dell’attesa. Anche il pubblico del loggione era in fermento, accompagnato da belle signore che fumavano e conversavano tra loro, mostrando una moderata impazienza. Da Milano erano giunte, al seguito della squadra, circa duecento persone.
Lungo il viale, davanti a Piazza d’Armi, qualcuno era salito sul tetto di casa per poter vedere l’incontro.
Alessandria, mormorò una madamin milanese è un salotto del calcio. Il vermouth delle 12 al bar dello sport con i suoi frequentatori in ghingheri tiene lontana l’immagine della città cupa e grigia.
Le strade non erano asfaltate e nei giorni di secca, nei pressi del campo, venivano bagnate dal mattino perché non si alzasse la polvere.
Anche il campo poteva sembrare poca cosa, ma non era così, con la gente che composta si fermava un attimo in silenzio a uaciare la blasonata. Solo quando l’arbitro fischiò l’inizio dell’incontro, ecco, il campo diventò una bolgia.
La giornata era splendida, il terreno degli Orti in ottime condizioni, illuminato da un pallido sole di primavera alle porte. Il campo era ben curato. Lo sorvegliava da lontano la grande ciminiera della fabbrica del cappello che sputava fumo e lavoro duro.
La città, piatta e grigia, sembrava ricoprirsi di rumori e di suoni. Anche di grande allegria. Il tifo era un rumore assordante che poteva intontire chiunque, non chi era in campo.
Centrocampo. Il cielo sembrava una garza sporca. L’aria tiepida bloccava il respiro. Il fischio d’inizio diventava liberatorio. Il cielo divenne più basso, la luce si dileguò in un nulla.
Ma che beij i noster fanciot! Ticozzelli era rigido, Smith aveva il cipiglio dell’autorità in campo, Torricelli la geometria, Grillo l’estro e la fantasia. Ma gli occhi erano puntati su quel fiò dall’aria scubia che aveva l’ingrato compito di sostituire Bosio e che sembrava uno scherzo della natura. Piazza d’Armi era esterrefatta e cominciavano i malumori. Lo aveva già apostrofato col suo stradinom “Tracanà” per quel suo piede sghembo e quelle due gambe rachitiche. Quando fece il suo ingresso in campo all’allenatore non furono risparmiati insulti nemmeno alla cugina di secondo grado.
“Ma cul fiö lì, con quel fisico da mangimi, l’è meij saral drenta ‘na capunera.”
Aveva due gambette corte e smilze come le zampe di un cardellino. Due stuzzicadenti che molti si chiesero come facesse a stare in piedi. Smith, prima del calcio di inizio, gli passò una mano sul capo e lo accarezzò, per tranquillizzarlo.
Al primo tocco il pubblico chiuse gli occhi perché pensava di vederlo volare via, invece arrivò sul pallone, guardò l’avversario negli occhi e sorrise come se volesse prenderlo in giro, poi si piegò a sinistra e con una mezza rotazione andò via a destra con la palla attaccata al piede quasi camminando.
Gli occhi del pubblico assiepato a bordo campo smisero di guardare il gioco e si concentrarono sulle gambe secche e storte del Tracanà. Ormai il suo stradinom, quello che la gente di queste contrade usa con una facilità e con una inventiva che non ti lascia scampo, lo avrebbe portato con sé per tutta la vita.
Per tre volte consecutive, con la palla al piede fece la medesima finta. Si vede che conosce soltanto quella avevano commentato i maligni. Ma per tre volte il suo avversario era andato a vuoto e aveva accarezzato con il suo fondoschiena il tappeto verde di Piazza d’Armi. Ma lì, in quel momento, si rese conto che le sue gambe, quelle sue gambe così disarticolate e scomposte, sapevano saltare, correre, ballare con la bala taca i pè, infrangendo le leggi della natura e gli schemi della mente.
Il pubblico non capiva, guardando quelle ginocchia storte, la sinistra che girava in dentro e la destra in fuori, come facesse ad avere un guizzo così imperioso. Stavano tutti scandendo il suo nome, anzi, lo stradinom.
“Tracanà! Tracanà!”
Le sue labbra tremavano, gli occhi si accesero.
“Me car Benzi,” disse il Fugassa, allenatore della squadra ragazzi dal bordo del campo. “ Il pulè di fanciot promette bene. Hai visto che bel toc a tò tirà föra?”
Quando gli cambiarono la marcatura il difensore avversario provò a usare le maniere dure per farlo desistere. Era un mastino che non mollava la presa. Faceva sentire il suo alito fetido sul collo del fanciot, i suoi muscoli e la sua forza cercavano un contatto per spaventarlo.. Il ritmo del suo cuore dava impeto a questa ira. Ma lui andava sempre più forte. Al quinto fallo consecutivo qualcuno del pubblico era già entrato in campo. Il gioco fu fermato per qualche minuto e riprese quando il capitano Smith parlò a nome di tutta la squadra e chiese ai più agitati di lasciar continuare la partita.
All’ennesimo fallo, un’entrata cattiva e violenta, sembrò porre fine ai tocchi deliziosi e all’estro di questo prodigio. Tracanà si accasciò al suolo, contratto in una smorfia.
Sul campo scese il gelo. Quel fanciot di appena sedici anni poteva essere figlio di ognuno di loro. A bordo campo tutti trattennero il fiato. Dal loggione qualcuno stava insultando l’arbitro. L’autore del fallo si era portato nella zona del centrocampo per sfuggire alle provocazioni e alla rabbia. Evitava di guardarlo negli occhi. Sudava e la sua fronte perdeva gocce come un lavabo sfondato.
I compagni avevano il viso contratto, erano tesi, col sangue al naso. I cori del pubblico rimbombavano, sembravano segnali di guerra.
Tracanà si alzò in piedi con lentezza, tornò sui suoi passi. Sentiva improvvisamente lo stomaco trafitto da un suono profondo e basso. Prese il pallone e lo poggiò nel punto dove lo avevano steso. Si levò qualche timido applauso. Lui sorrise, allora gli applausi salirono. Il difensore avversario andò a stringergli la mano.
La commozione è una cosa strana, ti chiude lo stomaco, lacrime salate salgono agli occhi.
Robe da angeli, cominciarono a dire tra il pubblico, mica da persone normali.