…È un personaggio a New York – un animale di Broadway.»
«Che fa nella vita… è un attore?»
«No.»
«Un dentista?»
«Meyer Wolfshiem? No, è un giocatore d’azzardo.» Esitò, poi aggiunse freddamente: «È lui l’uomo che truccò la World Series nel 1919.»
«Truccò la World’s Series?» ripetei.
L’idea mi scosse. Ricordavo, ovviamente, che la World’s Series era stata truccata nel 1919, ma ho sempre pensato a quella vicenda come a qualcosa di semplicemente accaduto, l’esito di un’inevitabile sequenza di eventi. Non avevo mai preso in considerazione l’idea che un uomo potesse prendersi gioco della buona fede di cinquanta milioni di persone… con la stessa determinazione di un ladro che fa saltare una cassaforte.
«Come ha fatto?» chiesi dopo un po’.
«Aveva intuito la possibilità.»
«E come mai non è in carcere?»
«Non sono riusciti a condannarlo, vecchio mio. È un uomo molto furbo.»
(Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald. Nella traduzione della Fernanda Pivano)
Leggendo i giornali, e le fonti internazionali autorevoli (la BBC, per dire), sembra prossimo a scoppiare un enorme scandalo sulle scommesse nel tennis, anche con radici italiane, tanto grave da rischiare di eguagliare quello sportivo più celebre in assoluto.
Che ormai risale a cent’anni fa, e la cui portata fu tale da finire in uno dei maggiori romanzi del ventesimo secolo, in uno dei più bei film di sempre (Il Padrino, Parte II), in altri libri e film anche più recenti come il celebrato ‘L’uomo dei sogni’ con Kevin Costner, il signor baseball delle pellicole.
Lo scandalo dei ‘Black Sox’, parafrasi del nome della squadra di Chicago, i White Sox che persero le finali mondiali del gioco del baseball nel 1919 perché otto suoi giocatori, corrotti da un gruppo di gangster e scommettitori, si vendettero le partite.
Da noi il baseball lo giocano e lo seguono pochi appassionati, ma per gli Stati Uniti è stato, fino agli anni sessanta almeno, quello che loro definiscono “national pastime”. In una nazione molto giovane è stato fondamentale storia, cultura, tradizione: un fenomeno sociale così rilevante che le partite delle finali del 1919, oltretutto le prime dopo la fine di una guerra mondiale, venivano seguite con collegamenti telegrafici e aggiornamento in diretta su tabelloni giganteschi che riproducevano il terreno di gioco, il diamante, nelle piazze e nei locali di centinaia di città, “da Winnipeg in Canada fino all’Avana, capitale di Cuba”, come racconta ‘Eight Men Out’, il libro sulla vicenda, dettagliatissimo, scritto da Eliot Asinof e portato sullo schermo (‘Otto uomini fuori’ appunto) da John Sayles verso la fine degli anni Ottanta.
Una vicenda che, anche grazie ai resoconti giornalistici prima (furono tra l’altro alcuni reporter a rendersi conto e a denunciare la possibilità che le finali mondiali fossero truccate), e alla diffusione nei romanzi e nel cinema poi, è ormai indissolubilmente legata alle storie, interessantissime, dei suoi protagonisti.
Il Meyer Wolfsheim di Gatsby era in realtà Arnold Rothstein, un gangster della mafia ebraica newyorchese che con le scommesse clandestine accumulò una fortuna. Finirà ammazzato nel ’28 dopo aver perso milioni di dollari in una partita di poker, secondo lui truccata, che durò tre giorni.
La squadra di Chicago apparteneva a Charles Cominskey. Aveva i migliori giocatori e li pagava peggio di tutti. Anche per quello si vendettero le serie, si dice. Anzi, il nomignolo Black Sox pare venne coniato perché i calzettoni (Sox) da bianchi erano diventati neri, dato che Cominskey risparmiava perfino sulla lavanderia.
Quando lo scandalo fu evidente, verso la fine della stagione 1920, oltretutto segnata dalla morte del capitano dei Cleveland, i rivali dei White Sox, abbattuto durante una partita da un lancio assassino del feroce Carl Mays degli Yankees, i proprietari delle squadre si affidarono a un severo giudice federale, Kenesaw Mountain Landis, battezzato con questo nome così bizzarro in ricordo del luogo dove suo padre, sudista, perse una gamba durante la guerra di secessione. Era già famoso per aver dato una multa di 29 milioni di dollari (dell’epoca!) alla Standard Oil di Rockefeller.
Il giudice Landis pretese e ottenne che nessuno dei giocatori coinvolti mettesse mai più piede sul diamante. Il giorno dopo la sentenza con cui gli otto giocatori furono assolti in tribunale, le prime pagine dei giornali riportavano la sua chiarissima dichiarazione: anche se assolti dalla giuria, comunque non giocheranno mai più. Così fu.
Tra l’altro si racconta su di lui un aneddoto, che esula da questa storia ma davvero gustoso: negli anni trenta circolava una foto del ricevitore dei Cubs, l’altra squadra di Chicago, mentre firmava un autografo ad Al Capone. Il giudice lo convocò intimandogli di non avere più contatti con il gangster. Va bene giudice, rispose Gabby Hartnett, il ricevitore. Ma ad Al Capone va lei a dirglielo.
Ognuno degli “otto uomini fuori” ha una propria storia, tutte significative e tutte accomunate dall’amarezza e frustrazione con cui invecchiarono, esclusi dal baseball e man mano dimenticati.
La più celebre è quella di Shoeless Joe Jackson.
Veniva dalle poverissime zone rurali della Carolina del Sud, dove se imparavi a leggere e scrivere eri considerato strano. Era infatti analfabeta. Un giorno, a inizio carriera, insofferente alle scarpe chiodate, giocò scalzo. Da lì il soprannome Shoeless. Aveva un talento naturale che forse ha eguagliato solo un altro campione dall’infanzia difficile, il bambinone Babe Ruth. Era famosissimo Shoeless Joe, una specie di Cristiano Ronaldo di allora, diciamo.
Accettó 5.000 dollari dagli scommettitori, senza capire bene cosa stava succedendo, e infarti giocó benissimo nelle serie mondiali. Quando confessó era ubriaco, e firmò un documento che non era in grado di leggere né di comprendere.
I giornali ci hanno tramandato quello che divenne l’episodio emblematico dell’intera vicenda. Un giorno fuori dall’aula del tribunale un ragazzino in lacrime lo tirò per la manica della giacca:
– Say it ain’t so, Joe. Say it ain’t so. Dì che non è così Joe. Dí che non è così.
– Yes, kid, I’m afraid it is. Sí, ragazzino. Temo che lo sia.
P. S. La foto di Times Square dà l’idea di quanta gente si radunasse per “guardare” le finali sui tabelloni