Pier Luigi Cavalchini
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L’oscuramento mediatico dell’evento dell’anno (almeno per quanto riguarda la salute complessiva del pianeta), cioè la Conferenza COP 21 di Parigi, ha indotto ad una sottovalutazione della sua portata e, soprattutto, dei lavori di “commissione” che hanno portato ad alcuni grandi (e inoppugnabili) risultati.
L’oscuramento, evidentemente, è stato quello causato dall’emergenza terrorismo, che ha visto proprio la capitale francese al centro dell’attenzione. Peccato….proprio perché il termine “great” , usato da un presidente degli Stati Uniti, presente per circa una settimana ai lavori, ben rappresenta il motivo del contendere. Riprendendo il “Protocollo di Kyoto”, ad esempio si è fatta definitivamente chiarezza su entità e cause (con relativi responsabili) di anni e anni di inquinamento. Le nazioni del “Nord” (più sviluppate) e quelle del “Sud” (meno avanti nello sviluppo secondo parametri tradizionali, definiti così in una delle commissioni di lavoro) hanno preso impegni importanti, anche se “i tempi stringono” e le promesse con numeri irraggiungibili sono ancora le “soluzioni di comodo” più gettonate.
Come è noto una delle questioni più importanti è stata quella della definizione del “limite massimo di CO2 tollerabile”, tenendo conto di tre obiettivi di massima: 1) sotto i 2°C; 2) molto sotto 2°C facendo in modo di arrivare velocemente a 1,5 °C ca.; 3) decisamente sotto gli 1,5°C. Secondo l’Emission Gap report rilasciato il 1 Ottobre 2015 dal Programma per l’Ambiente delle Nazioni Unite (Unep), per contenere la temperatura entro i 2°C rispetto all’era pre-industriale, le emissioni totali di gas a effetto serra, espresse in equivalenti di anidride carbonica CO2, non dovrebbero superare nel 2030 le 42 Gt CO2 (1 Gt = 1 miliardo di tonnellate). Per contenere la temperatura sotto gli 1,5°C, invece, le emissioni non dovrebbero superare le 39 Gt CO2. Questi obiettivi presuppongono una riduzione importante delle emissioni attuali dei gas a effetto serra. Le riduzioni nazionali volontarie annunciate con gli INDCs (Intended Nationally Determined Contributions), benché rappresentino uno sforzo notevole, non sono sufficienti a raggiungere questi obiettivi. Infatti la somma degli INDCs porterebbe infatti a 56 Gt CO2 nel 2030, cioè 14 Gt CO2 in più rispetto allo scenario per limitare la temperatura a 2°C e 17 Gt CO2 di troppo per limitare la temperatura media a 1,5 in più rispetto all’era pre-industriale (i dati sono quelli presenti nella relazione finale della Conferenza).
In termini di “sacrifici” la differenza tra i due scenari non è molta, e secondo il report dell’UNEP decidere per l’una o per l’altra è soprattutto una questione politica. E su questo strettissimo nesso fra scienza e politica si è discusso molto, data l’evidenza del peso delle scelte di indirizzo che dovrebbero essere conseguenti alle (molte) analisi fatte.
Per risolvere il problema delle responsabilità, è stato deciso di adottare un processo tipo bottom-up, con delle contribuzioni nazionali volontarie, i cosiddetti INDCs. “Il problema è che sommando gli INDCs, non si arriva a una riduzione delle emissioni di gas a effetto serra sufficiente per limitare l’innalzamento della temperatura media a 2°C o 1,5°C rispetto all’era pre-industriale. I paesi in via di sviluppo vorrebbero che fossero i paesi sviluppati a fare uno sforzo maggiore, aumentando le loro contribuzioni alla riduzione tramite gli INDCs” dice Maria-Eugenia Sanin, economista dell’Università di Montevideo. Questo corrisponde a riconoscere una responsabilità storica da parte dei paesi sviluppati (1). Certo si riconoscono passi avanti “nelle quattro aree più rilevanti economicamente del mondo” ma è ancora poco e i due dati dei 100 miliardi di fondi verdi impegnati dai Paesi del Nord per un’autolimitazione e per incentivi annui ai “Paesi del Sud” più in difficoltà combinati con la data del 2020 (e non “da subito”, come richiesto da più parti) sembrano – di fatto – insufficienti. Come pure non soddisfacente è la sostanziale deroga alla possibilità di organismi internazionali a base ONU di effettuare controlli, verifiche e – eventualmente – coadiuvare i processi di rinnovamento/diminuzione impatti.
L’opposizione della Cina (ma anche dell’India e di altri “emergenti”) ha ristretto la valutazione degli effetti di mitigazione alle sole competenze degli Stati via via coinvolti. Certo, si tratta di un passo avanti … ma l’impressione è che ormai sia tardi per farne uno solo e che – a brevissimo termine – bisognerà farne quattro o cinque insieme. Anche su questo (come su tanto altro…) vedremo…
.(1). “Queda claro entonces que la contribución a la reducción de emisiones no puede basarse en lo que esperamos ganar como país. Sólo una transición de la lógica competitiva a una lógica cooperativa nos puede asegurar el esfuerzo global necesario para garantizar la sostenibilidad. Y lo mejor de todo es que dicho cambio de lógica está prosperando lentamente en los cuatro rincones del mundo: la Unión Europea en su conjunto, muchos estados de los Estados Unidos, Australia y hasta la China han restringido sus GEI en los últimos años” . ( i GEI sono i coefficienti di inquinamento legati soprattutto alle emissioni in CO2 . ndr).