di Bruno Soro
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“La stupidità ci domina con travolgente impudicizia.”
Robert Musil, Sulla stupidità, Rosellina Archinto, Milano 2001
In questi giorni dominati dall’incertezza e dalla paura, dopo i fatti di Parigi e di Bruxelles, ma, come si legge sulla stampa quotidiana anche da efferati delitti maturati tra le mura domestiche (è di giovedì 26 novembre la notizia che, nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne, una giovane donna, avvocato con prole, è stata uccisa dal marito a fucilate) è difficile non cadere preda dell’angoscia. A meno, per cercare di capire, di non ricorrere alla lettura.
La prima tentazione è stata quella di riprendere in mano il libro di Samuel P. Huntington “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale” – gentilmente regalatomi in occasione di un Natale sul finire degli anni ’90 dalla compianta professoressa Giuliana Callegari -, ma vi ho rinunciato per due buoni motivi. In primo luogo, perché su questo libro altri e più titolati di me si sono già pronunciati, e poi, sinceramente, non sono affatto convinto che quello in atto sia uno “scontro di civiltà”. E inoltre, direi soprattutto, perché alla ricerca di uno stimolo sono inciampato, facendo scorrere lo sguardo sui miei libri, su una riflessione del “maggior poeta e saggista tedesco contemporaneo”: “Il perdente radicale” di Hans Magnus Enzensberger (edito da Einaudi nel 2007).
Una riflessione che ho immediatamente associato ad un’altra, di tutt’altro genere, frutto della perversa e ironica fantasia di uno dei più prestigiosi storici dei fatti economici del Novecento: “Le leggi fondamentali della stupidità umana” di Carlo M. Cipolla. Un libro che odora ancora di inchiostro (una sensazione che nessuna versione elettronica riesce a trasmettere), nella rinnovata edizione fresca di stampa de il Mulino, impreziosita dalle fulminanti vignette di Altan, assai funzionale alla regalia natalizia. [Carlo M. Cipolla, “Le leggi fondamentali della stupidità umana”, il Mulino, Bologna 2015.]
Che cos’hanno in comune queste due letture? E soprattutto che cos’hanno dainsegnarci sui fatti tragici di questi giorni? Sia l’una che l’altra sono costruite, la prima, ragionando, e la seconda, ironizzando, attorno a due differenti categorie concettuali: quella del “perdente radicale”, la figura dai mille volti che mette in relazione “il padre che stermina la famiglia”, il “soldato nazista”, il “kamikaze islamista che progetta il suicidio di un’intera civiltà”, e quella della “persona stupida”, ovvero “il tipo di persona più pericoloso che esista”. Entrambe, a me pare, convergono verso la medesima interpretazione dei fatti che ci angosciano.
“Parlare del perdente è difficile, e sciocco non parlarne”, esordisce Enzensberger, che subito dopo si domanda chi sia il “perdente radicale”, quell’individuo che “si ritrae in disparte, diventa invisibile, coltiva il suo fantasma, raduna le proprie energie e attende la sua ora”. Dopo di che passa ad interrogarsi sul motivo per cui il moltiplicarsi di casi isolati “induce a concludere che esistono sempre più perdenti radicali”. Se a suo tempo il poeta tedesco si fosse imbattuto nella prima edizione originale in lingua inglese di The Basic Laws of Human Stupidity del 1976 – una edizione “numerata e fuori commercio sotto l’improbabile sigla editoriale dei «Mad Millers», i mugnai pazzi” (recentemente ripubblicata in questa veste dal Mulino nel 2011) -, egli avrebbe sicuramente concordato con le risposte che Cipolla dà ad entrambe le sue domande. La «Terza (ed aurea) Legge Fondamentale della stupidità umana» – scrive Cipolla – recita infatti testualmente che: “Una persona stupida è una persona che causa danno ad un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita”.
La «Prima Legge Fondamentale» asserisce inoltre “senza ambiguità di sorta che: sempre ed inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di stupidi in circolazione”. Che le due figure retoriche abbiano qualche affinità?
Dal momento che la ricerca delle «cause della stupidità umana» sarebbe cosa vana, il motivo per cui Cipolla sorvola sulla questione, le due narrazioni divergono nel momento in cui Enzensberger si pone, per contro, dalla parte di “chi vuole capire il perdente radicale”. Nell’approfondire la questione, egli rimarca il fatto che “il progresso non ha eliminato la precarietà della condizione umana, ma l’ha profondamente modificata”. Inoltre, in un passaggio che ogni persona di buon senso non può che condividere, il poeta tedesco scrive: “Negli ultimi duecento anni le società più evolute si sono conquistate nuovi diritti, nuove aspettative, nuove esigenze, spazzando via l’idea di un destino ineluttabile; hanno posto all’ordine del giorno concetti quali la dignità e i diritti dell’uomo; hanno democratizzato la lotta per il riconoscimento e suscitato attese di uguaglianza che non si possono soddisfare; e nel contempo hanno fatto sì che ogni giorno per ventiquattro ore la disuguaglianza venga dimostrata su tutti i canali televisivi a tutti gli abitanti del pianeta. Ragione per cui la delusione umana è aumentata con ogni progresso”. Al tempo stesso, poiché “Il tarlo ossessivo che tormenta il perdente è un confronto che perpetuamente si risolve a suo sfavore”, la sua irritabilità “cresce con ogni miglioramento che nota negli altri”.
Il perdente radicale accumula pertanto umiliazioni, e ciò fa crescere in lui la convinzione che la sola via d’uscita alla sua personale condizione di perdente sia “la fusione di distruzione e autodistruzione, di aggressione e autoaggressione”. Costui, del tutto ignaro del fatto “che l’umiliato è colpevole della propria umiliazione, che non merita affatto il rispetto che pretende”, è costantemente alla ricerca di quel riscatto che gli consentirebbe finalmente di trionfare sugli altri. È così che il perdente radicale, convinto com’è che la vita degli altri, al pari della sua, non valga niente, trova il suo riscatto nel loro (e nel suo) annientamento. In un frangente storico dominato dalla globalizzazione, dalla celerità della diffusione del suo gesto grazie alla rete, il suo riscatto lo trasforma in un eroe, una mitica figura che “per i minorenni – conclude Enzensberger – costituisce una tentazione alla quale è difficile resistere”, e che per di più stimola “potenziali imitatori”.
Fin qui, l’analisi è condotta in una prospettiva individuale, di tipo «micro», per dirla con Cipolla, incentrata sul singolo gesto, quello dello sterminatore dei propri familiari, dei compagni di scuola, del professionista che ritiene gli abbia causato un danno, del concorrente o della fidanzata sfigurati con l’acido. “Ma che cosa accade – si chiede Enzensberger – quando il perdente radicale supera il suo isolamento, quando si socializza, quando trova una patria dei perdenti, da cui si ripromette non solo comprensione, ma riconoscimento, un collettivo di simili che lo accoglie a braccia aperte e ha bisogno di lui?” Accogliendo il suggerimento di Cipolla nel capitolo dedicato al “potere della stupidità”, qui la prospettiva muta radicalmente e diviene di tipo «macro». La socializzazione del perdente radicale richiede tuttavia l’innesco di una «miccia ideologica», un collante il cui contenuto, nella narrazione di Enzensberger è del tutto irrilevante, “è l’ultima cosa che interessa”. “È indifferente –scrive il poeta – che si tratti di dottrine religiose o politiche, di dogmi nazionalisti, comunisti, razzisti: anche la più ottusa forma di settarismo è in grado di mobilitare l’energia latente del perdente radicale”.
Niente di più sbagliato se a questo punto la mente corre al fenomeno dei foreign fighters, giacché Enzensberger ci invita a riflettere sul fatto che, storicamente, “l’umanità non abbia mai ritenuto che la propria vita debba essere considerata come il bene supremo”. Egli si rifà al caso, per lui familiare, del “progetto nazionalsocialista in Germania”, un progetto innescato dall’esito infausto della prima Guerra Mondiale, a seguito del quale, come John Maynard Keynes ebbe a prefigurare in “Le conseguenze economiche della pace” (Adelphi Edizioni, 2007), alla fine della Repubblica di Weimar “vasti strati della popolazione si sentivano perdenti”. Ma la «miccia ideologica» richiede qualcuno che la inneschi, e qui il poeta, guardando agli eventi odierni, ci fornisce un ritratto del «burattinaio di turno» (riferendosi a Hitler, ma prefigurando il Califfo), di preveggente chiarezza. La forza di attrazione del «burattinaio» consisterebbe nel fatto “che egli stesso si qualifica come un perdente ossessivo”, ed è proprio “nei suoi tratti paranoici (che) si riconoscono i suoi seguaci”. “Giustamente – fa notare Enzensberger – gli si attribuisce un calcolo cinico; perché naturalmente disprezza i suoi adepti, conoscendoli troppo bene: egli sa che si tratta di perdenti che, come tali, ritiene sostanzialmente privi di valore”. E qui, richiamandosi ad Elias Canetti, il poeta ci fa notare come il «burattinaio» goda all’idea “che possibilmente prima di lui crepino tutti gli altri, compresi i suoi seguaci, prima che lui stesso finisca impiccato oppure carbonizzato nel suo bunker”.
Che dire, restando in attesa dell’auto-proclamazione del novello “Maestro di palazzodei Franchi”, Carlo Martèllo, e della rinnovata e vittoriosa tenzone nei pressi di Poitiers (ogni riferimento al Presidente Hollande è da ritenersi improprio), non mi resta che citare, a mo’ di conclusione quanto scrive Carlo M. Cipolla nel suo imperdibile pamphlet: “Non vi è alcun modo razionale per prevedere se, quando, come e perché, una creatura stupida porterà avanti il suo attacco. Di fronte ad un individuo stupido, si è completamente alla sua mercé. (…) Col sorriso sulle labbra, come se compisse la cosa più naturale del mondo lo stupido comparirà improvvisamente a scatafasciare i tuoi piani, distruggere la tua pace, complicarti la vita ed il lavoro, farti perdere denaro, tempo, buonumore, appetito, produttività – e tutto questo senza malizia, senza rimorso, e senza ragione. Stupidamente.”
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