Alessandria, l’ho già scritto, è città di stupendi chitarristi. L’ho già evidenziato qui, ovvero il Superstite 220 in cui elogiavo un nutrito elenco di artisti locali di cui molti avrebbero meritato, o meriterebbero tuttora, il podio nazionale.
Relegando, appunto, il campo ai virtuosi delle sei corde, si dovrebbero almeno citare in un elenco quanto mai multigenerazionale: Renzo Mazzoni (passato a recentissima notorietà come “il Batman delle buche”), Franco Caracciolo, Stellio Cellerino, Paolo Stella, Roberto Vergagni (che abbraccio con affetto perché purtroppo colpito di recente da una pesante menomazione che al momento ci priva della sua mano insuperabile), Mauro Galati, Otello Vanni, Giulio Traversa, Claudio Gigli, Giulio Gagliardi (il papà di Elisabetta!), Renzo Ceroni, Marcello Benzi, Piero Panizza, Elio Pasino, Federico Rimonti, Paolo Boveri, Roberto Guidobono, Gege Picollo, Rudi e Dado Bargioni, Cristiano Mussi, Marcello Milanese, Claudio Perotti, Gabriel Delta, Thierry Zins, Sergio Cina, Alessandro Balladore, Francesco Albertazzi. E ovviamente mi dimentico qualcuno perché sono un notorio rimbambito.
Ma qui giunto spendo le mie parole per Marcello Chiaraluce che intitola questo pezzo in un gioco di parole alludente alla luce del rock in lui più che splendente, oserei dire bruciante sino all’ustione. Il suo concerto cui ho assistito recentemente in un luogo di umana resistenza che si chiama Bike Bar è stato uno tsunami di energia e funambolica abilità chitarristica, spaziante da un congruo numero di canzoni proprie fino ad arrivare a una meditata scelta di classici dei Dire Straits, Chuck Berry, Queen e Beatles, di fronte al quale non resta che ammettere la presenza nel corpo dell’uomo di un cospicuo frammento dell’anima di Mark Knopfler.
All’opera, ma è innegabile che esista anche, e soprattutto, uno “stile Chiaraluce” che non riproduce, ma cita e reinterpreta i maestri per lui più influenti. Se ne può avere ampia verifica ascoltando con attenzione i suoi due album solisti On a winter Walk del 2007 e Crime of the Rhyme dell’anno scorso, quest’ultimo positivamente sfuggente a facili tentativi di definizione, perché composto da 10 tracce molto diverse tra loro per stile e influenze. Si va dal rock robusto in climax Dire Straits di Cellophone Line al satirico citazionismo dei Sixties in Seven Days, dalla lirica struggente di Out of Time al Southern di Mama Don’t Worry. E straordinarie dissonanze armoniche in Princess of Snow per arrivare a un esempio di fine cantautorato in Solo me. Chiaraluce suona e canta, supportato da una band magnifica in cui svetta la limpida voce “alla pari” di Serena Torti, e poi Luca Grosso alla batteria, Kenny Valle alle tastiere e Daniele Piglione al basso. Inoltre interventi mirati in più di una traccia di Luca Ogliaro, Claudio Cattero, Giuseppe Ricupero e il quartetto di fiati Nassau Horns Quartet. Sul palco con lui al Bike i due Luca, Grosso e Ogliaro, e sotto un pubblico attento e a volte entusiasta (poi, lo sapete, nel dire “a volte” cito un noto atteggiamento alessandrino…).
A questo punto, se vi ricordo che l’uomo ha suonato per molti anni nei Beggar’s Farm, la Tribute Band dei Jethro Tull capitanata da Franco Taulino e che è laureato in chitarra jazz al Conservatorio Vivaldi, vi trasmetto cose scontate ampiamente reperibili in rete. Meno ovvio è che Marcello è ideatore della bella manifestazione GUIT-AL, festival della chitarra Rock Pop Blues, cui hanno partecipato nomi storici dello strumento come Paolo Bonfanti, Tolo Marton, Christian Saggese e Giorgio “Fico” Piazza. Invece, del tutto trascurabile – ma al Superstite importa assai… – è che io alcuni anni fa abbia potuto calcare il palco con lui al fianco e alle spalle Clive Bunker, il grande batterista dei Jethro. Il pezzo era We Used to Know, esperienza live tra le più belle della mia vita.