Sabato scorso abbiamo incontrato monsignor Guido Gallese, Vescovo di Alessandria, al termine della celebrazione della Festa della Chiesa locale in Cattedrale.
A tre anni dalla sua ordinazione, ne abbiamo approfittato per fare una bella chiacchierata su diversi temi: dal Convegno ecclesiale nazionale appena concluso alla chiesa alessandrina; dal contenuto della fede ai recenti tragici fatti di Parigi.
Monsignor Gallese, lei è appena tornato dal Convegno della Chiesa italiana di Firenze. Che tipo di esperienza è stata, e che cosa ha portato a casa?
Per me quella di Firenze è stata un’esperienza molto bella, come d’altronde mi aspettavo, avendo già partecipato al convegno di Verona nel 2006. E’ stata un’esperienza di comunione, anche perché tutti sono stati coinvolti, laici e consacrati. E’ emersa una chiesa in trasformazione, decisa a seguire la strada tracciata dal Papa. Bisognerà poi vedere che cosa riusciremo a combinare… cambiare non è mai una cosa semplice!
Da Alessandria ha portato con sé a Firenze sei delegati. Con che criterio li ha scelti, e che cosa si aspetta da loro?
Ho voluto scegliere persone appartenenti ad ambiti diversi: giovani, consacrati, movimenti, carità… Da loro mi aspetto che portino ad Alessandria l’entusiasmo che hanno vissuto, l’aria di chiesa che hanno respirato. L’obiettivo reale è aiutarci ad aprirci. Credo che i delegati abbiano vissuto un’esperienza che ha aperto loro gli occhi, lo sguardo, la mente e il cuore. Ogni tanto occorre alzare la testa e “vedere com’è il gioco”, anche nella chiesa.
Lei è ormai da tre anni Vescovo della nostra città. Nella nostra prima intervista, aveva dichiarato di “voler morire per Alessandria”. A che punto siamo?
Siamo al punto che sto morendo! (scoppia a ridere, ndr) Ma questo nel senso bello del termine, sia chiaro… per “morire” intendo dire che sto dando la mia vita a questa città. E’ molto faticoso, sto riscontrando i miei limiti, la mia fatica di amare in modo così radicalmente gratuito come richiede questo mio compito, però sono determinato. Talvolta ho dei momenti in cui sono sgomento, di fronte a questa impresa che mi sembra veramente sovrumana. Poi però faccio memoria della grazia di Dio che mi accompagna e che mi ha voluto in questo ruolo. Devo dire che come stato di fondo sono sereno, anche se è una serenità molto faticosa.
Parliamo dei sacerdoti alessandrini. Com’è il suo rapporto con loro?
Con i sacerdoti in questi anni abbiamo intrapreso un cammino insieme, di conoscenza e di comunione. Li ho visti crescere, e apprezzo moltissimo la loro partecipazione agli incontri del clero. Apprezzo anche il fatto che si stiano mettendo in gioco continuamente, con grande schiettezza.
Lei sta in qualche modo “rivoluzionando” la chiesa di Alessandria con il Discernimento comunitario, una serie di incontri settimanali per meditare il Vangelo, che sta raccogliendo molte adesioni. Quali sono i frutti di questo discernimento?
Non so se è già il caso di chiamarla rivoluzione. Questo lo vedremo più avanti, perché è un seme che ha bisogno di tanto tempo per dare frutto. Per quel che mi riguarda, è un tentativo di rinnovamento della chiesa, nel solco di quanto ci è stato chiesto dal Pontefice. E’ un rinnovamento che passa non da un banale cambio di strutture, ma da un cambiamento dei nostri cuori. Il Discernimento comunitario è la dinamica interna di chiesa, che viene richiesta da un modello ecclesiologico come quello proposto da papa Francesco. Per questo sono molto contento che il Papa a Firenze ci abbia chiesto di riprendere la Evangelii Gaudium. Rileggendola, ne comprendo l’utilità per il nostro lavoro pastorale, anche per il coinvolgimento dei laici nella vita della chiesa. Sarebbe un peccato archiviarla, come purtroppo abbiamo fatto in passato con tanti altri documenti.
Nella sua ultima Lettera pastorale, lei è entrato nel concreto della vita della nostra città, dando anche alcuni suggerimenti. Come valuta il particolare momento storico che Alessandria sta attraversando? E’ ancora possibile coltivare una speranza positiva nel futuro?
Sinceramente vedo una città in cui le autorità pubbliche sono in contatto tra loro e hanno una buona intesa. Questo è già un punto di partenza importante. Le occasioni di scambio non mancano, e sono contento di poter affermare che forse l’occasione più bella è il pranzo della Salve, che facciamo in episcopio proprio il giorno della Festa della Madonna della Salve. Partecipano tutti: sindaco, prefetto, comandante dei carabinieri… siamo lì insieme, solo noi, e così emergono temi molto importanti per la città.
Lei personalmente ha fiducia nel futuro di questa città?
Sì, io ho fiducia. L’unico vero ostacolo è questo endemico pessimismo alessandrino (sorride, ndr). Sono convinto che Alessandria abbia delle grandi eccellenze e capacità. E mi pare anche che altri posti vicino a noi abbiano meno possibilità, ma le sfruttino meglio.
Andiamo sul personale. Come fa a mantenere la freschezza della fede?
Qui si tocca un nervo scoperto, nel senso che io mi sento “semi-ateo”. Al mattino, dopo aver fatto la Comunione, la mia preghiera è “Signore, che io ti conosca”. Mi rendo conto che questa è la domanda di uno che inizia il cammino. Forse è questa la freschezza della fede, non dare mai per scontate le basi… in realtà, ciò che rende veramente freschi è la vita di comunità, che a me a dire il vero un po’ manca. Ancora non l’abbiamo realizzata tra noi, e ci vuole molto tempo. Anche perché la mia comunità sono i sacerdoti, e non è costume che i sacerdoti e il Vescovo facciano comunità!
Lei ha appena celebrato la Festa della Chiesa alessandrina. Ma dopo quello che è successo a Parigi si può ancora festeggiare?
La Chiesa è l’unica risposta al male, alla violenza, all’odio, alla morte, alla cattiveria. Come ci dice papa Francesco, noi troviamo la vera umanità in Gesù Cristo. E il volto di Gesù Cristo è quello dell’uomo dei dolori. In lui troviamo la gioia della risurrezione. Noi festeggiamo un risorto, non un trionfatore che non ha conosciuto la sofferenza. Questa è la speranza dei cristiani, che anche quando andavano al martirio erano pienamente gioiosi perché erano incorporati a Cristo morto e risorto, e già prima della morte presagivano la gioia della risurrezione. La Chiesa, in un modo soprannaturale e misterioso, comunque fa festa, perché nessuna parola triste, brutta o devastante è sufficiente a togliere la speranza al cristiano.
In questo frangente storico, così drammatico, sembra che ci si possa dividere solo tra “interventisti” e “buonisti”. Tra chi sostiene che è il momento di dire basta, e chi invece invita a continuare sulla via del dialogo. Secondo lei è possibile essere buoni senza essere “buonisti”?
Il criterio della bontà e del buonismo è nel cuore di ogni persona. La differenza tra le due posizioni sta nella capacità di non farsi contagiare dal male, di essere buoni. Questo non è da tutti… Chi non è capace di essere buono è “buonista”.
E chi dice “chiudiamo le frontiere e mandiamoli via tutti”?
Questo è l’equivalente dei muri in Israele, e di tutti i muri che si erigono nel mondo. Credo sia importante parlarsi, confrontarsi e dialogare. Bisogna rompere i ghetti e arrivare a un confronto vero, a partire dalle cose più semplici. Certo, poi le nazioni dovranno prendere delle decisioni. Ma il criterio dell’umanità è dato da Cristo, e la vera soluzione sarà sempre quella di Cristo, cioè il perdono. Il perdono, per i nemici e per i persecutori.
Chi ha la cattiveria dentro non troverà salvezza se non sarà perdonato da qualcuno, e fino a quando questo non accadrà nulla potrà valere a estirpare il male dal mondo.Non illudiamoci di trovare altra salvezza se non in Gesù Cristo. Perdonare è l’unico bene che si può fare a certe persone segnate dal male. Ricordiamo don Pino Puglisi… chi l’ha ucciso è stato “contagiato” dal bene. E che un assassino venga contagiato dal bene è una cosa umanamente incredibile. Ma il bene è più forte del male!
Andrea Antonuccio