Carlos Maria Alsina: “l’unico dogma nel teatro è che non ci sono dogmi”

carlos fotos (2)di Debora Pessot

 
Autore teatrale, regista, docente, attore, grande studioso e scrittore. Le sue opere teatrali sono state rappresentate in Europa e in gran parte del Sud America. L’argentino Carlos Maria Alsina ha ottenuto molti riconoscimenti a livello internazionale sia come autore che come regista. Vive metà dell’anno nel suo Paese, dove sviluppa la sua attività nel Teatro Indipendente “El Pulmón” di Tucumán, e l’altra in Italia, dove tiene seminari e corsi di recitazione (da stasera a domenica ad Alessandria). Carlos ama molto la nostra città (e una nostra concittadina) perché la trova misura d’uomo ‘mi piace molto, so che Alessandria non è tra le città più belle d’Italia, ma ti offre cose tranquille, con gentilezza …’

 

Carlos, Come ti sei innamorato del teatro?carlos fotos 4
Beh, è stato un amore a prima vista. Avevo solo tredici anni quando andai a vedere uno spettacolo che mi commosse talmente tanto che a volte penso di non essermi mai più alzato da quella poltrona. È stata una grande fortuna capire in giovane età quale fosse la mia passione, che fino ad oggi non mi ha abbandonato. Credo davvero che l’arte, in questo caso il teatro, possa cambiare una vita, per lo meno la mia l’ha trasformata.

 
Sei regista, drammaturgo e attore?
Ho cominciato molto giovane come attore, in seguito, a circa vent’anni, ho scritto il mio primo testo, immediatamente dopo mi sono cimentato con la regia. Piano piano ho lasciato il palcoscenico per dedicarmi di più al lavoro di regista e di drammaturgo, contemporaneamente ho cominciato ad insegnare.

 
Carlos (2)Per te è stato importante essere attore prima che regista e drammaturgo?
Essere prima attore mi ha allenato l’orecchio, recitando ho capito che nella scrittura la mia letteratura non poteva essere di tipo narrativo, ma doveva essere focalizzata sull’agire affidando all’attore il compito di trasmettere la storia. In teatro il vero poeta è l’attore. Shakespeare senza gli attori sarebbe uno scrittore fra tanti. Penso che senza attore non ci possa essere teatro: detta così parrebbe un’ovvietà, però si può fare teatro senza regista o senza scenografo, ma non senza attore. Paradossalmente non è quello che interessa di più nel nostro mestiere, a volte si tende a dare più importanza all’allestimento, al montaggio, alle luci, alla scenografia, ecc.
Trovi delle differenze tra gli attori argentini e italiani?
Si. Le differenze più visibili sono nell’atteggiamento delle persone che possono essere ricondotte al tipo di società in cui si cresce. La società argentina, per esempio, è molto violenta e prepotente, per cui gli attori tendono ad avere un rapporto con il loro corpo senza limiti, per cui bisogna contenerli. Mentre in Italia gli attori hanno la spinta, ma non arrivano fino in fondo, c’è una sorta di ‘anestetizzazione’ dell’azione, si tende a dare più importanza alla battuta. Ma la parola non è il nostro mestiere, siamo attori dobbiamo saper agire: questa è la chiave del teatro.

 
Reciti ancora?carlos lezione
L’ultima volta che ho lavorato come attore risale a dieci anni fa. Al momento farlo mi è difficile, perché in Argentina quando uno spettacolo funziona lo puoi replicare fino a sette mesi, per cui sarei obbligato a restare sul posto per tutto quel tempo e mi impedirebbe di dedicarmi ai miei seminari. Ma se ci fosse l’opportunità potrei farlo perché no? A me piace molto.

 
StanislavskijParliamo del metodo che insegni, che differenze ci sono tra il primo e il secondo Stanislaskij?
Per usare una provocazione ti posso dire che c’è la stessa differenza come tra la masturbazione e fare l’amore. Nel primo Stanislaskij, l’oggetto di studio per l’attore è il suo passato come persona da cui attingere le emozioni. È un lavoro che porta all’isolamento. Invece l’ultimo Stanislaskij, quello del metodo delle azioni fisiche, si basa sul rapporto con l’altro, per cui l’emozione, lo stato d’animo non arriva come conseguenza di un lavoro introspettivo, ma nasce dalla produzione di un nuovo tipo di suggestione e non come la riproduzione di un’emozione della vita. Finita la partita, finita l’emozione. Nel suo ultimo lavoro Stanislaskij fa molta chiarezza, distinguendo tra psicologia e tecnica teatrale. A nessuno gliene frega com’è un attore nella sua interiorità, intendo dire che non è necessario per costruire una situazione teatrale. Il lavoro introspettivo può essere efficace nel cinema, perché è una produzione che non ha che fare con il ‘qui e ora’, non ha un costo psicologico molto alto. In teatro tu non puoi dire all’altro ‘aspetta che ricordo l’odore dei fiori del funerale di mia madre per arrivare all’emozione perché ci sono tempi teatrali da rispettare. In quel momento, c’è una realtà particolare. Il primo Stanislaskij può servire per il cinema. I due metodi sono profondamente diversi l’uno dall’altro, il primo cerca prima l’emozione e poi l’azione, mentre il secondo cerca prima l’azione che provoca l’emozione. L’emozione che ricerchi con il metodo delle azioni fisiche la senti quando reciti, ma quando hai finito vai nel camerino a farti la doccia, non è che poi vai a casa e strangoli tua moglie se fai l’Otello. Nel nostro modo di lavorare non abbiamo mai chiesto ad un attore se ha vissuto un fatto simile a quello che deve costruire in scena perché non è rilevante. Se portiamo il ragionamento all’assurdo allora nessuna attrice farebbe Medea perché chi ha l’esperienza di aver ammazzato i suoi figli. Noi stiamo lavorando con un archetipo e non con la vita. L’attore dovrà costruire con i suoi partner una situazione teatrale. Il personaggio non è risultato della volontà del pensiero o dell’astrazione, ma è il risultato di una cosa molto concreta che è il rapporto con l’altro, con l’ambiente, con gli oggetti, con i conflitti. Il tentativo è quello di descrivere un procedimento concreto dietro il quale c’è un’ideologia, c’è una filosofia.

 
In questo caso qual è l’ideologia?
Il materialismo dialettico applicato al teatro, al lavoro concreto dell’attore. C’è una tesi, c’è un antitesi e c’è una sintesi. La lotta è quella che costruisce il rapporto, superando l’opposizione posta dall’altro si può crescere. Per questo la metafora di prima. Il primo Stanislaskij è paragonabile alla masturbazione che isola dagli altri, mentre il metodo delle azioni fisiche porta a costruire un rapporto, a fare un bambino con l’altro, una sintesi. Lo soluzione è nell’altro e non in te. Le nostre azioni hanno bisogno di una finalità per sapere dove andare e per cosa lottare. Questo fa la differenza tra una persona che vuole trasformare la realtà e una che reagisce in modo ribelle di fronte alla realtà. La persona ribelle butta un sasso all’infinito, il rivoluzionario sa dove lo butta, perché lo butta, con quale obiettivo e contro chi. Il primo fa un movimento, il secondo fa un’azione perché sa dove vuole andare.

 
Da quanti anni insegni questo metodo e come lo hai fatto tuo?carlos
C’è stata in Argentina una corrente di studio, il cui esponente più rappresentativo è Raúl Serrano che cito spesso nel mio libro. È una scuola che ha preso il sopravvento nel mio paese probabilmente perché noi a volte non abbiamo i mezzi tecnici o la ricchezza economica per fare grandi scenografia o grandi allestimenti, per cui è molto importante avere dei bravi attori. Credo sia per quello, non perché siamo migliori o peggiori di altri, le circostanze storiche ci hanno portato un tipo di teatro dove il rapporto con l’attore era quello che ci salvava, ci permetteva di fare spettacoli col nulla, spendendo nulla però recitato nel modo migliore possibile. Ho anche fatto un mio percorso di ricerca, grazie ad una borsa di studio nel 1988 sono andato a Berlino e ho studiato il rapporto tra il teatro di Brecht e il metodo delle azioni fisiche.

 
Il metodo si è sviluppato negli anni?
Dal 1985 ad oggi sì, certamente. Nel corso degli anni ho approfondito i miei studi allargando lo stile teatrale che questa metodologia poteva comprendere, sviluppandola e adattandola. La struttura è modificabile, a volte uno dei suoi elementi va prima, altre dopo. È come una cosa viva, per cui ci sono cambiamenti all’interno del metodo tra Checov e Shakespeare, tra Shakespeare e Brecht e così via. Molti pensano che tra il primo e il secondo Stanislaskij ci sia una continuità, in realtà c’è un taglio netto e categorico, c’è una grande differenza epistemologica. Stanislaskij ha avuto le ‘palle’ di mettere in discussione il suo lavoro e lo stesso ha fatto Brecht.
Al PacinoPerché il metodo delle azioni fisiche non è così famoso come il primo Stanislaskij?
L’Actors Studio che utilizza il primo metodo, è il riferimento per gli attori di tutto il mondo, partendo da un centro come gli Stati Uniti dove il cinema è un’industria imperiale. Attori come Al Pacino o Paul Newman non hanno fatto un percorso teatrale, ma quasi esclusivamente cinematografico. Un altro motivo per cui si è diffuso maggiormente è sicuramente legato a motivazioni storiche. Stanislaskij elabora il secondo metodo tra gli anni 1929 e 1938 quando si chiudono le frontiere, ciò che esce è solo per volontà del partito comunista (stalinista). Certe pratiche artistiche sono passate attraverso i partiti e così è arrivato fino in Argentina. Serrano, infatti, era del partito comunista.

 

 

Stare all’interno di un metodo può aiutare un artista, ma non si corre il rischio di restare ingabbiati? Di non trovare la parte geniale?
Si, in effetti questo è ciò che è accaduto a Serrano. Si rischia oggettivamente di vedere tutta la realtà sotto la lente di una tecnica, ma il metodo è solo il ‘come’ che spesso in teatro non è chiaro. Al contrario uno scultore ha un obiettivo ben chiaro, osserva il marmo e capisce quale strumento usare per lavorarlo. Il metodo deve servire a dare gli strumenti all’attore per arrivare al fine ultimo, ossia la bellezza della situazione teatrale. Non si può insegnare a creare un’opera d’arte. Quello che cerco di fare nei miei seminari è di trasmettere un procedimento su come arrivare ad un possibile momento di bellezza e di arte a seconda del talento e della sensibilità di ognuno, senza giudizi estetici perché in quel caso non sono in veste di regista. Insegno come usare gli strumenti per aprire certe porte con più facilità: le porte creative. Utilizzare un procedimento sistematico e ordinato non vuol dire che sia freddo e razionale, anzi questa tecnica serve per costruire certi stili teatrali e non tutti. La mia tecnica è pensata per non pensare, solo così si può trovare, ‘perdendosi’ si può trovare un momento creativo. Dice bene Picasso: ‘Io non cerco, trovo’. L’arte si trova senza volontà.

 
In Argentina hai un tuo teatro?locandina carlos
Si. Di fronte a casa ho costruito un piccolo teatro di settanta posti che mi permette di fare spettacoli e di avere la mia indipendenza, nessuno mi finanzia per farlo. Il sistema di produzione a Tucuman è diverso, se uno spettacolo funziona può rimanere in cartellone dai due ai quattro nei fine settimana. Questo per gli attori è buono perché nella continuità il lavoro può migliorare e crescere.
I finanziamenti non li vuoi o non te li concedono?
Entrambe le cose. La città dove vivo io è quella che ha più desaparecidos in rapporto alla sua popolazione. Negli anni i governi locali hanno avuto tra i loro rappresentanti personaggi implicati con il genocidio. L’attuale Presidente del Consiglio Federale della Cultura, che occupa quel posto da undici anni, ha sostenuto quel progetto politico, per questo motivo la mia posizione è di non volere un soldo fino a che ci sarà un complice del genocidio in un posto così importante. Io mi autofinanzio con grande difficoltà, mi aiuta molto il lavoro qui in Italia. Il mio teatro si chiama El pulmón (il polmone). In Argentina usiamo un modo dire, quando facciamo qualcosa, con fatica ma con onestà e dignità, dando l’aria diciamo che lo facciamo ‘a pulmón’, cioè mettiamo i polmoni.
Hai una compagnia teatrale?
Abbiamo un gruppo ma non è stabile. Nel mio percorso personale ho capito che quando uno istituzionalizza un gruppo comincia a morire lì perché è molto difficile che il percorso individuale di ognuno coincida con quello degli altri. Noi abbiamo un gruppo di fatto, non istituzionalizzato come tale. Quando siamo d’accordo per condividere un progetto lo facciamo, però non c’è l’obbligo perché si è del gruppo, così riusciamo a fare ciò che più ci piace. Condividiamo idee, questa lotta politica ci unisce.

Non ti pare che questo tipo di teatro che trasmette ideali forti, come l’arte in genere del resto, sia venuto un po’ a mancare in Italia rispetto a quello europeo o oltreoceano?
Rispetto alla mia esperienza, mi pare che non ci sia una riflessione filosofica sulla tecnica. Gli allievi con cui ho lavorato, che arrivano dalle accademie di teatro più accreditate, non hanno una formazione critica e ideologica rispetto al metodo con il quale lavorano. Non mi riferisco al modo di pensare sia inteso, ma al modo di produrre. Si tende a pensare e a parlare prima di agire. Così facendo il corpo è meno libero di giocare, ci si blocca in una gesticolazione apparente, ma non ci sono vere azioni. Troppe maschere. Per ottenere qualcosa di vero e genuino è necessario rompere gli schemi e andare in profondità trasformando. Diciamo che credo sia importante lo sguardo critico e non avere certezze definitive su nulla. L’unico dogma che c’è nel teatro è che non ci sono dogmi e tutto può servire a seconda delle circostanze con la consapevolezza che dietro ad ogni ‘come’ c’è un’ideologia. Nessuno è neutrale e non è tutto uguale, solo gli scemi lo pensano.