In margine alle esplosioni di Ankara

Cavalchini nuovadi Pier Luigi Cavalchini
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Nonostante tutto, circa diecimila persone, con cori e striscioni fortemente critici nei confronti del governo Erdogan, si sono riunite domenica 11 ottobre in una delle piazze centrali di Ankara per ricordare nel modo migliore possibile i circa 130 morti (accertati) della terribile strage di sabato, causata – come è noto – da due kamikaze.
“Two suspected suicide bombers hit a rally of pro-Kurdish and labor activists near Ankara’s main train station on Saturday, three weeks before an election, shocking a nation beset by conflict between the state and Kurdish militants”.

Così, seccamente, il comunicato del “Pentagono” – su tutti i media americani –Turchia in piazzasintetizza i fatti, ricordando che la manifestazione di ieri, era soprattutto di sostenitori della causa curda (minoranza di più di venti milioni di persone in Turchia) e delle forze della “sinistra radicale” turca e curda. In questo modo, chi ha deciso di attuare questa strage ha colpito a ragion veduta e con intenti chiarissimi: creare un clima di violenza diffusa, favorevole ad un annullamento delle prossime elezioni dell’1 novembre o, per lo meno, ad una psicosi che porti ad una minima partecipazione al voto stesso, specie in quelle zone dove i partiti della minoranza curda riescono a sfiorare il 90% dei consensi.

Curiosa la risposta del ministro degli Interni Davutoglu agli attacchi che gli sono provenuti da più parti, anche da autorevoli rappresentanti internazionali: “Il governo della Turchia non ha nulla a che vedere con il duplice attentato e, se proprio si vuole cercare un responsabile, lo si ricerchi fra le varie fazioni curde o fra alcuni militanti sbandati di estrema sinistra” Non una parola su una possibile matrice ISIS/DAESH (cioè del Califfato di Al Baghdadi) né di pendenze a carico di quel che resta dei “Lupi grigi” e della variegata (e forte) destra nazionalista turca. Interpretando il pensiero del ministro verrebbe da dire: “Solo colpa loro… se la sono cercata… l’hanno ricevuta”.

In questo modo si riapre in Turchia (ma purtroppo anche nelle vicine zone a maggioranza curda in Iraq, Iran e Syria) una ferita che sembrava rimarginarsi grazie agli anni di colloqui intercorsi nel carcere di massima sicurezza di Imrali fra Abdullah Ocalan (riconosciuto rappresentante di tutti i curdi) e gli emissari del governo turco. Evidentemente l’esito delle elezioni di qualche mese fa ha fatto capire ad Erdogan e sodali che si era vicini ad una soluzione vera, ad una qualche forma di riconoscimento ufficiale di autonomia, ad un’autodeterminazione politica ed economica, combinata con una completa libertà linguistica (con la possibilità di usare il curdo come prima lingua fin dalle scuole elementari) e religiosa. Una vera rivoluzione a cui Rayyip Erdogan non è culturalmente preparato e che sta portando una grande nazione di quasi cento milioni di abitanti alla guerra civile.

Il bello (…o il brutto) è che la stessa strage di sabato è vista con distacco europeo anche in centri vicinissimi ai fatti: ad Erbil, nord Irak a maggioranza curda, le immagini rilanciate su grandi schermi televisivi presenti un po’ ovunque, fanno lo stesso effetto che farebbero a Place Vendome o a Piccadilly Circus… Giusto un’occhiata… un pensiero veloce al fatto che non è capitato da noi … una telefonata se proprio si ha qualche parente in Ankara e zone limitrofe… Potenza dei “mall” americani, della loro capacità di assuefazione a tutto, in nome del livellamento a livello mondiale che ha in altri leaders (Louis Vuitton, Rolex, Gucci, Prada, Maserati, Marlboro, ecc.) i veri maitre a penser. Ricordo che Erbil, come Kirkuk (e, in misura minore , Souleymania) sono nel pieno del boom neo-petrolifero, quindi con enormi possibilità di denaro che, per il momento, il governo Barzhani (PDK) si guarda bene dall’estendere ai vicini curdi di altri Stati. E’ ovvio che ci siano in nord Iraq molti curdi democratici convinti del contrario e quindi fortemente “presi” dai fatti di Ankara, ma la recente missione in loco mi fa propendere per una maggioranza di indifferenti.

Forse è proprio quel tipo di “integrazione” che vorrebbe il presidente Erdogan…. ma che non gli è possibile vista la drammatica povertà (pur dignitosissima) in cui versa il Kurdistan turco. Ben diversa, infatti, è stata la reazione – non solo con immediate manifestazioni, ma con un risentimento generalizzato nei confronti di chi, presumibilmente, ha armato i giubbotti dei kamikaze – nelle grandi città curde di Diyarbakir, Hakkari, Siirt, Suruc, Van (est Turchia), o in ciò che resta dei centri di aggregazione dei grandi nuclei (di circa 500.000 persone) di Qamislo o Kobane in nord Syria, attuale Rojava free territory. In queste grandi città si conosce – da sempre – la vera essenza dell’AKP (il partito tra il religioso e il nazionalista di Erdogan) e non ci si meraviglia più di tanto. Anzi, è molto probabile che si tragga nuova linfa per articolare ancor meglio le prossime mosse. Ed una prima, fondamentale, è già stata fatta: dichiarare il cessate il fuoco unilaterale da parte delle forze di difesa popolare del PKK che, praticamente da sole, cercano di limitare i danni di una presenza capillare e militarizzata dell’esercito turco nelle grandi, medie, piccole e piccolissime entità che formano l’ossatura del popolo curdo in Turchia. Un modo per togliere acqua da una vasca che rischiava di intorbidarsi, alimentandosi in continuazione di vendette e risentimenti.

Come se ne esce?.. Io, al contrario di altri, ritengo che vi sia una forte motivazione economica a monte di questa netta divisione, sicuramente nei dati concreti ma, a volte, strumentalmente forzata. E’ chiaro che a tenere i cordoni della borsa sia, in Turchia, una piccola minoranza di banchieri, speculatori e tecnocrati – soprattutto di etnia turca – che intende gestire a piacimento la cosiddetta “rinascita economica turca”. Un PIL che, seppure fiaccato in quest’ultimo anno, viaggia comunque su un +4 annuo, con facilitazioni di ogni genere per gli investitori e gli imprenditori stranieri (molti anche italiani). Di lì, a cascata, lo scarso (se non nullo) rispetto dei fondamentali diritti dei lavoratori locali, una totale non considerazione ambientale delle aree interessate i da impianti industriali e commerciali, un sistema sanitario e scolastico nettamente distinto fra servizio privato (di qualità, ma carissimo) e pubblico (ai limiti di tolleranza).

In tutto questo “mondo dorato” non c’è spazio per l’intelligenza, l’imprenditoria, l’originalità dei Curdi… al massimo questi ultimi possono essere “forza lavoro”, possibilmente silenziosa, giusto in gradino più in alto di pakistani, cingalesi o filippini.

Pertanto, il mantenimento di uno Stato unitario turco sulla base di quanto stabilito dagli accordi susseguenti alla Prima Guerra Mondiale, è legato ad un sovvertimento dei rapporti sociali ed economici (prima ancora che etnico-linguistici o religiosi); Il salto di qualità o è “di tutti” o “di nessuno”. Di qui la grande partecipazione di giovani studenti e lavoratori alla manifestazione di Ankara, curdi e turchi insieme, coscienti dei veri termini delle contraddizioni di cui sono oggetto.

Sullo sfondo… un quadro disarmante. Ad un Kurdistan iraniano ancora alle prese con una forte riaffermazione della “non esistenza” di un popolo autonomo curdo (interno all’Iran) con repressione e condizionamenti conseguenti, fa da contraltare – come già segnalato – un Kurdistan iraqeno inebriato dal nuovo boom petrolifero che fa dei terreni fra Erbil e Kirkuk una vera Eldorado e che ha nell’aumento dei consumi “effimeri” la prima chiara manifestazione.

Nell’angolo restano i più di venti milioni curdo-turchi e, soprattutto ora, i quasi cinque milioni di abitanti di etnia curda maggioritaria nei territori del nord Syria (dal confine iraqeno di Selenka fin quasi alla città martire di Aleppo). Un popolo fiero, abituato ad un discreto livello di vita, con un buon bagaglio culturale, che si trova – da un giorno all’altro – a non avere più elettricità diffusa, senza collegamenti pubblici stabili e, quel che è peggio, con gravi privazioni nel sistema sanitario e scolastico, entrambi al collasso. Ciò di cui vivono, ripeto ‘cinque milioni di persone’ è poco più di un’economia di sussistenza, di nuovo basata sulla pastorizia e su un commercio paragonabile a quello di cent’anni fa. Si tratta di un’operazione voluta, frutto di un “embargo” concordato che vede, come muri di gomma, da una parte la Turchia, dall’altra il territorio dell’ISIS/DAESH e, anche se in modo meno eclatante, gli stessi curdi del nord Iraq dell’attuale presidente Barzhani. Questi ultimi, forse, vedono nelle potenzialità organizzative e auto gestionali del Rojava syriano una minaccia anche peggiore dell’ISIS. Peccato, perché – invece – l’anelito ad un’unità – o per lo meno ad una confederazione – tra pari è molto forse tra il popolo del Rojava syriano e, se i media occidentali faranno attenzione alle prossime mosse, potrebbe proprio partire di lì quella “via alla liberazione” che tutti ci auguriamo.