Ancora a margine della conferenza La leggenda è servita – storie alimentari di questo e altri mondi, veniamo ai lupi mannari, conosciuti anche come licantropi, che dividono con i loro cugini vampiri e morti viventi l’identica passione per la carne cruda, umana e/o animale, consumata alla fonte. Ma a differenza di chi si ciba o beve sangue per ragioni di sostentamento, gli uomini lupo fanno scempio di prede non tanto per cibarsene quanto perché vittime di una natura ferina che emerge in loro dal profondo, quasi una sorta di raptus provocato dalla condizione di plenilunio.
La luna piena è infatti la dimensione spaziotemporale in cui persino un innocuo prete di campagna può trasformarsi in belva lupesca e feroce, come appunto accade nel romanzo breve di Stephen King Unico indizio la luna piena. Ma non è infrequente, allora, che i wolfmen, una volta tornati normali, manifestino repulsione per i cibi animali perché, in una sorta di complesso di colpa materializzatosi nel piatto, questi ultimi ricordano loro la patologia di cui soffrono quasi inconsapevoli (i lupi mannari di solito non hanno memoria di quel che combinano durante le crisi…) e le sanguinolente conseguenze della licantropia. Ergo, un uomo lupo mangia di solito normalmente, quando l’uomo prevale sul lupo, ma può diventare un vegano anche contro la sua stessa volontà.
A questo punto non ci resta che soffermarci sulla strega, forse la creatura notturna che più intrattiene rapporti con il cibo. Non tanto perché è donna, ovvero la persona che di solito più frequenta la cucina, ma perché il mondo stregonesco ha elaborato nel suo lungo tempo di supposta esistenza un solido e lungo campionario di alimentazione rituale. L’argomento meriterebbe ben più spazio e al proposito consigliamo l’ottimo testo di Massimo Centini e Laura Rangoni Il cibo delle streghe. Qui ci limitiamo a ricordare che dalla maggior parte dei verbali dei processi per stregoneria si estrapola il tema del cibo come elemento costitutivo per pozioni magiche o come orrida declinazione cannibalistica all’interno del cosiddetto “banchetto sabbatico”, durante il quale i corpi di bambini rapiti venivano cotti e alcune parti venivano mangiate e altre servivano per la realizzazione di prodotti magici.
Non occorre specificare che qui trionfa unicamente l’ottica dei pubblici accusatori dell’Inquisizione.
Gli stessi Centini e Rangoni arrivano alla seguente conclusione:
“In sostanza si osserva che il banchetto sabbatico, visto attraverso l’ottica condizionante degli accusatori, diventava un chiaro indicatore della totale negatività dei rituali delle streghe. Il loro pasto, grasso e sfrenato, o orrido da cannibale, era ormai del tutto spogliato da eventuali tracce di culti tradizionali collegati alle culture più antiche. Su quella mensa perversa in cui si divoravano i neonati e si invocava Satana, ormai pesavano preconcetti demonizzanti maturati in secoli di accese lotte contro la diversità, contro chi non aveva voluto seguire la strada maestra per continuare a percorrere gli antichi sentieri, contro chi aveva fatto del diavolo il proprio dio”.
In realtà il cibo delle streghe non era poi diverso nella quotidianità da quello di tanti altri “poveri” del Medio Evo. Un cibo che per la cattiva cottura spesso era indigesto come il pane in cui “spesso si verificava un’incompleta lievitazione a causa della grandezza delle forme, e un’insufficiente cottura, dovuta all’alto costo della legna da ardere”, ma a questo si deve aggiungere un altro elemento che da solo può giustificare le allucinazioni, il sabba ed i “voli” delle streghe: spesso nella miscela per fare il pane entrava anche la segale cornuta che contiene un elemento chimico simile all’LSD.
Laura Rangoni e Massimo Centini aggiungono: “Il cibo delle streghe, alimento normale o anomalo, ma soprattutto orrido, era un contenitore di credenze, di tradizioni simboliche, che con le sue apparenze manifestava un particolare status a cui apparteneva chi praticava una ben precisa scelta alimentare.
Il cibo del sabba era un ulteriore emblema dell’anomalia delle pratiche perseguite dalle streghe: ogni momento dell’incontro corrispondeva all’infrazione di un tabù: la danza, l’itinerario rituale e il pasto si univano in simbiosi, dando vita a una ricostruzione contrassegnata, nella coscienza del potere antropocentrico, con toni malefici e diabolici”.
La stregoneria però si caratterizza come un fenomeno rurale e quindi è opportuno comprendere il modo di approccio al cibo di quel mondo di cui le streghe sono parte. Nel saggio gli autori elencano con precisione quale fossero in quel periodo le caratteristiche del cibo dei contadini e quindi anche delle streghe, ma qui voglio richiamare solo alcuni elementi che a mio avviso hanno creato lo stereotipo della strega:
Prodotti della raccolta spontanea comprendevano frutti di bosco, erbe, funghi. Il proverbio insegna che “a primavera ogni erba che sporge la testa è buona per essere messa in pentola”. A tal proposito gli autori ci ricordano che “non era infrequente che venissero consumati anche funghi tossici o velenosi. Sappiamo ad esempio che l’amanita muscaride, letale in determinate quantità, veniva usata assieme ad altri ingredienti, e procurava allucinazioni e visioni. Le fonti ci riportano l’uso di ovuli, prataioli, mazze di tamburo, spugnole, manine, ecc.
Le erbe aromatiche e officinali venivano o cercate in luoghi incolti o coltivate nell’orto, e servivano soprattutto per insaporire i piatti. Ma avevano anche una grande importanza come ingredienti di tisane e decotti, che costituivano la cucina-farmacia di quel tempo e tra queste ancora troviamo prodotti in grado di provocare allucinazioni e visioni come, ad esempio: il papavero, la belladonna, la mandragora.
L’aglio aveva un posto d’onore nella cucina dei poveri, per il particolare sapore che poteva “rallegrare” piatti altrimenti estremamente insipidi, e per la facile conservazione, così la cipolla e lo scalogno.
La carne era ben presente sulle tavole rurali, dalle tre alle cinque volte alla settimana, ma in sostanza animali da cortile (polli, oche, conigli e colombi) e cacciagione. Buoi e mucche erano per lo più animali da lavoro e tenuti in considerazione per la produzione del latte, quindi venivano mangiati quando erano troppo vecchi per lavorare, quando erano sterili o morivano per incidenti e malattie. Capre e pecore venivano allevate anche per il latte e la lana. Erano soprattutto i maiali a occupare un posto importante nel regime alimentare dei poveri e, considerando che le streghe e i contadini non potevano permettersi il lusso dell’olio, il lardo, la sugna e in genere il grasso animale restava l’unica forma di condimento accessibile.
Le frattaglie erano il piatto principale dei poveri: orecchie, occhi, zampe, testine, interiora, sangue, trippa, polmone o corata, cuore, a volte pelle.
Importante, sempre per capire come nasce l’immagine della strega, è capire come erano cucinati questi prodotti. Se le frattaglie venivano spesso fritte e insaporite con salse, erbe, le verdure e la carne di buoi e mucche, poiché proveniente da animali vecchi, venivano bollite; forse da questo nasce il famoso pentolone delle streghe!). Dobbiamo ricordare come la legna fosse un prodotto da non consumare in eccesso, ecco perché le cotture a “fiamma viva”, come lo spiedo, non potevano essere comuni.
In conclusione si può affermare che il cibo, quasi monotematico, delle creature delle notte sia proprio la carne umana vista nel suo insieme di plasma, muscoli, cartilagine e ossa. Trionfa quindi quel concetto di cannibalismo profano di cui ci raccontava Piero Camporesi ne Il pane selvaggio e in altri testi. Nelle sue ricostruzioni storiche Camporesi ha messo in scena con straordinaria dovizie di particolari e di contestualizzazione un mondo umano degradato, subanimale,alle prese con una antropologia digestiva di pura sopravvivenza, a un passo dall’inferno fisico e morale, accompagnata da pratiche alimentari “discutibilissime” al palato contemporaneo, ma che in realtà sono rimaste installate per secoli nel cuore della nostra storia culturale europea. Le sue scrupolose ricostruzioni testuali e storiche mettono in mostra scenari ed eventi che ben poco hanno da invidiare ai deliri splatter di molti film horror, anche dell’ultima ora come The Green Inferno. “In ogni caso se il primo cibo culturale è la carne umana, il cannibalismo non diventa più attività irrazionale di menti barbare, ma pratica religiosa fortemente simbolicizzata e razionalizzata all’interno di un preciso modello cosmologico e agisce come spinta genetica per tutto il culturale e il simbolico presente nell’uomo.”
Il Cibo – con la maiuscola – delle creature delle notte siamo allora noi. E, siccome il detto “l’uomo è ciò che mangia” vale anche per il mostro, l’imperfezione dei mostri deriva, anche e soprattutto, dall’imperfezione delle proprie derrate alimentari.
Un’ultima annotazione, quasi un aneddoto. Siamo all’inizio del celeberrimo Dracula di Bram Stoker – o, se pensate di visualizzarlo, di Dracula il vampiro di Terence Fisher. Jonathan Harker giunge, dopo un lungo viaggio dall’Inghilterra alla Transilvania, al castello del Conte e, dopo essere stato accolto da lui con gelida cortesia, viene invitato a una cena solitaria con il Conte che lo guarda e lo studia davanti al caminetto. Nonostante non esista, tanto nel libro che nel film, la minima traccia di una cucina da qualche parte, Harker si trova davanti un abbondante piatto con pollo arrosto, formaggio e una bottiglia di vecchio Tokay. Il Conte, mentre Harker si nutre quasi con voracità, dichiara: «Vi prego, cenate. Spero che vogliate scusarmi se io non mi unisco a voi, ma non ceno mai».
Un tocco umoristico di assoluta classe che si appoggia tutto sulla presenza quasi “magica” del cibo “per comuni mortali” all’interno del castello di Dracula.