Sono appena tornato da due giorni e mezzo di Meeting. In realtà si chiama “Meeting per l’amicizia tra i popoli“, ma probabilmente è un nome troppo lungo per i giornalisti, che si affidano a etichette “prestampate”: Meeting di Rimini, o Meeting di Cielle (o Cl, a piacere).
Di prestampato c’è, a mio avviso, anche il giudizio sull’evento, dipinto solitamente in modo negativo o, nel migliore dei casi, dubitativo. Un esempio è l’articolo del 24 agosto di Marco Lillo sul Fatto Quotidiano, in cui il noto giornalista scrive un pezzo (un po’ astioso) che avrebbe potuto produrre tranquillamente un mese fa, da casa sua, senza neanche passare da Rimini a dare un’occhiata. E’ il vizio che hanno (anzi, abbiamo) un po’ tutti: giudicare le cose prima di averle sperimentate.
Credo sia opportuno offrire una visione diversa, se non altro per completezza, di che cosa è stato il Meeting di Rimini visto dall’occhio (il mio) di un visitatore curioso. Senza alcuna pretesa di esaustività, ovviamente.
Userò due lettere della parola “Meeting”, la prima e l’ultima, per raccontarvi quello che ho visto e sentito.
“M”
E’ la lettera iniziale, che quest’anno indica due temi fondamentali: Mostre e Martiri.
Mostre: sono il punto di forza del Meeting, ogni anno. Ne ho visitate tre (sempre con guida), insieme ai miei figli di 17 e 15 anni: la mostra sull’arte contemporanea, presentata da un video ironico e intelligente di Giacomo Poretti (il terzo di Aldo, Giovanni e Giacomo); quella sull’Abbazia di Morimondo e la Sagrada Familia; da ultimo, la mostra “Millennial Experience”, che racconta l’esperienza di alcuni ragazzi americani in cerca di lavoro e alle prese con la crisi economica. Ne ho perse molte altre, purtroppo.
Martiri: la fiera di Rimini, che ospita il Meeting, si è letteralmente fermata per ascoltare la testimonianza di Douglas Al-Bazi, parroco iracheno di Mar Elia a Erbil (“Credo che ci distruggeranno nel Medio Oriente, ma l’ultima parola sarà la nostra e sarà ‘Gesù ci ha salvati'”), e padre Ibrahim Alsabagh, un francescano che segue la comunità latina di Aleppo, in Siria. Nomi, quelli dei due religiosi, che non ci dicono nulla, gente di cui non si sente mai parlare. Noi, seduti in poltrona, ci trastulliamo con il teatrino di Renzi, Berlusconi, Salvini e compagnia. Anche solo per questo, per l’apertura al mondo che si vive, bisognerebbe andare al Meeting.
“G”
E’ l’ultima lettera della parola Meeting. E vale per due: Gente e Giovani.
Gente: tantissima, una valanga. E’ uno spettacolo, c’è veramente di tutto: dalle famiglie numerose (poco fashion, ultimamente) ai ragazzi con tatuaggi e piercing; dal professore universitario all’analfabeta. Al Meeting c’è posto per chiunque. Non sono molti i luoghi così.
Giovani: è la roba che fa incazzare di più i maître à penser di casa nostra. Ma che cosa attira da ogni parte d’Italia (e non solo) tutti questi ragazzi, che arrivano come volontari e si pagano viaggio e una parte dell’alloggio? E’ solo perché a Rimini c’è tanta passerina, come la chiamano da queste parti anche i ciellini? O forse c’è qualcosa che sfugge al 99% dei giornalisti che sbarcano al Meeting?
Come vedete, non ho trovato la lettera “P” di “Polemica”. Questa la lascio ai professionisti dei distinguo e agli astiosi che, in quanto tali, pretendono che anche gli altri siano come loro: tristi, senza speranza, ma sempre pronti a insegnare agli altri che cos’è la vita.
Col cazzo… Io il Meeting me lo sono goduto veramente, e così anche mia moglie e i miei figli. Questi ultimi non sono un “pubblico” facile, come chi ha ragazzi adolescenti può comprendere. Se l’articolo non interessa, pigliano e salutano. E invece sono rimasti, con gli occhi ben aperti di fronte alla grandezza di quello che avevano davanti.
Insomma, il prossimo anno vi converrebbe farci un salto, al Meeting, anche solo per capire che cos’è davvero. Al massimo, se proprio non vi piace, potete sempre andare a mangiare una bella piadina. E poi buttarvi tutti al Cocoricò, se lo riaprono.
Andrea Antonuccio