Ciao, Bob, forse questa storia te l’ho già dedicata. È che non ricordo più bene. Ogni tanto il PC se ne va in crack e io, ultimo dei tecnologici e primo fra i bradipi, col piffero che faccio il back-up. In ogni caso, come l’altra volta – a naso un bel decennio – te la dedico di nuovo perché non abiti più qui e ci segui con affetto. Uh, ti vedo che ti stai toccando i marroni perché le dediche fatte in questo modo sanno un po’ di necrologio. Mica sbagli, la rubrica si chiama “Il Superstite” e qui alla fine, tra un lazzo e l’altro, ogni settimana si scherza con la morte.
Okay, chiudiamo il pistolotto e partiamo con la storiella.
Dunque, tu lo sai bene, nel bel mezzo degli anni Settanta nascevano in Italia le radio libere, trionfo di spontaneità, genialità occulta, di pirateria creduta tale, di plagio e di trasgressione (un po’ vera un po’ finta), di amori folli e di alcoliche nottate. All’inizio, in città, la prima fu Radio Alessandria International, della quale tu fosti uno dei pilastri “diurni”. Però il regno della “vera” trasgressione divenne, sin da subito, la notte con intrattenitori che trasmettevano musica non proponibile di giorno, la gente che telefonava in diretta, un sociale allora esplosivo e ribollente, argomenti tabù. E qualche volta telefonate agghiaccianti.
Come Wolfman Jack, il dee-jay del film American Graffiti che una sera sostenne di ricevere telefonate dall’altro mondo, un tipo che frequentava la radio allora e trasmetteva in diretta sino al crollo fisico visse un’esperienza analoga. Quasi tutte le notti, verso le tre, riceveva la chiamata di una ragazza dalla voce metallica e triste, che si presentava come “Melissa” e si complimentava con lui. L’amico ne restava leggermente scosso. La voce lo turbava senza una specifica ragione. Gli sembrava di captare, in quel modo di scandire tanto rassegnato, una concentrazione di rimpianti così alta da rendere la vita detestabile per non dire intollerabile. E poi una ragazza così giovane, almeno a giudicare dalla voce, che tutte le notti telefonava alla stessa ora, in un momento di solito monopolizzato da ferrovieri incarogniti, gente che soffriva d’insonnia, coppie che litigavano e ubriachi, non era proprio un evento normale. Chissà che mestiere faceva? Chissà se restava sveglia per quel mestiere? Chissà…
«Mi piaci tantissimo, voglio vederti», si sentì dire il tipo dopo una decina di volte. Quella notte, lui in seguito l’avrebbe giurato, la telefonata sembrava provenire ancora da più lontano, come certe trasmissioni in onde corte che si confondono tra rumori stellari e musiche arabiche.
«Niente di più facile. Io non posso muovermi. Ma tu puoi raggiungermi qui. Però non mi hai mai visto, resterai delusa».
Ma lei lo bloccò: «Io ti conosco. Tra mezz’ora sarò lì da te».
Al dee-jay venne in mente Clint Eastwood in un film di qualche anno prima, dove un intrattenitore notturno se la giocava con una pazza che girava armata di rasoio e affettava disc-jokey. Ma quello era solo un film, Play Misty for Me, in italiano Brivido nella notte.
Mezz’ora dopo, esatta, una ragazza suonò alla porta di Radio Alessandria e qualcuno la fece entrare nello studio di trasmissione. Lui, il disc-jokey. la guardò e restò assai perplesso. Anche lei, all’apparenza: quella voce calda che le aveva fatto immaginare chissà chi apparteneva invece a un barbuto stempiato con i capelli troppo lunghi e troppo pochi. I due malassortiti protagonisti dell’appuntamento “al buio” parlarono del più e del meno per dieci minuti. Quel tanto che bastò perché lui si accorgesse che la voce della ragazza che gli stava di fronte non era affatto la stessa del telefono. Infine le chiese:
«Ma che mestiere fai?»
E lei rispose: «Mi chiamo Irma, faccio la commessa e casco dal sonno. La verità che mia zia che tira le carte mi ha telefonato mezz’ora fa, pregandomi di venire qui a incontrarmi con te. Neanch’io so bene perché».
Lui strabuzzò gli occhi e chiese il nome della zia. Si sentì rispondere che la donna, quasi cinquantenne, si chiamava Lucia.
«Ma, allora, chi è Melissa?», chiese il dee-jay notturno.
«Non conosco nessuna Melissa», rispose lei, avviandosi verso l’uscita. «C’è solo quella svitata di mia zia che sostiene che il mio spirito guida si chiama così. Ma si può credere a una matta? Buonanotte. E scusami per il disturbo».
La ragazza uscì in corridoio. Lui doveva annunciare la prossima canzone. La lasciò andare così. Senza neppure chiederle un cognome, un indirizzo, un riferimento.
Adesso, Bob, indovina di chi abbiamo parlato. Sì, perché, amico, questa roba non me la sono affatto inventata. Insomma, lo sanno tutti che un bel 90% delle faccende che racconto qui e là, in rete e su carta, sono inventate. Però è il 10% che balla al di fuori che lascia un po’ interdetti. E questa sciocchezza è capitata a me. Ed è talmente statica e banale che si farebbe sul serio fatica a inventarla.
Certo, stai per lanciarmi un’ovvia considerazione. Avevo la radio a mia disposizione, una console e un microfono, per cercare Melissa e venirne a una. Volendo, potevo anche chiedere della tipa chiamata Lucia tra un Deep Purple e Jimi Hendrix.
«Ehi, Lucia, mi senti? Voglio ancora sentire la voce di Melissa!»
Ma non ho avuto mai il coraggio di farlo. Soprattutto perché, dopo quella notte, l’aria un po’ si ammorbò alla radio. A volte i dischi saltavano dal piatto da soli, altre volte si spaccava una lampadina. E ci furono notti in cui si udivano colpi furiosi alla porta ma sul pianerottolo proprio non si vedeva nessuno.
Non avevo prove – non le ho tuttora -, ma Irma aveva scaricato nei locali della radio il suo spirito guida. Oh, scritto così è solo un modo di dire. Gli accompagnatori (o le accompagnatrici) invisibili agiscono in piena autonomia. E poi Irma neppure ci credeva.
Invece lei, da allora, è rimasta con me. A volte al fianco destro, a volte sul collo, a volte infilandosi nei miei file e facendo impazzire qualche mio editore (chiedete spiegazioni all’amico Franco Forte sugli strani ghirigori che sono comparsi sul libro Pazuzu di Yon Kasarai dopo un editing perfetto…). Non posso farci nulla. Esige un libro ogni tanto, una citazione almeno, un gesto d’affetto. Ci convivo, non ho affatto paura.
Vorrei solo capire, Bob, da dove cavolo chiamava lei in quelle notti degli anni Settanta. E in quale cavolo di modo (mi trattengo…) faceva funzionare il telefono. Ciao, amigo.