di Loretta Ortolani & Nuccio Lodato
Ai tempi epici del Barbarossa rilanciati da Carducci “la primavera in fior mena(va) tedeschi”. Ora, più desolatamente, ogni anno, oltre alla scadenza del titolo, la… menata del consuntivo fiscale “relativo ai redditi degli anni precedenti”. Copione identico, stagione dopo stagione: e insostenibili problemi di coscienza.
E’ presto detto. Camminiamo per strada, specie se l’obiettivo è “fare la spesa”, oppressi dai sensi di colpa, soprattutto nei confronti di quei ragazzi di colore sui 25-30 che stazionano immobili giornata natural durante alle uscite dei supermercati. Neppure più tendendo la mano, ma osservando immobili un loro cappelluccio abbandonato a terra, quando va bene con poche monetine rossastre dentro. Il nostro filisteismo microborghese malrepresso farebbe venir voglia di parlargli -ben messi come sono- delle mitiche cassette di frutta e verdura da scaricare ai mercati generali (anche se magari là ormai è tutto meccanizzato, muletti e bancali, e forse non esistono neppure più i mercati, tanto meno “generali”: ma solo i Mercati, giudici supremi dei tapini Debiti Sovrani di noi tutti PIGS mediterranei, al momento almeno Grecia in testa). Invece ci allontaniamo tristi: “la sera ognuno col suo grave fascio va”, di stavolta pascoliana memoria.
I pochi articoli calcolati con cura in prezzo e scadenza in fondo alla borsa di plastica ci bruciano: il povero ragazzo non li ha, o si presume non li abbia.
Riprendiamo allora la via, incuranti e scevri da sensi di colpa, sfilando davanti ai negozi tradizionali, ben guardandoci, ahimé dall’entrare: i cartellini-prezzo delle vetrine hanno un terribile potere sviante.
Proprio lì, invece, sensi di colpa e questioni di coscienza dovrebbero farsi brucianti. E’ in quelle botteghe che si nasconde la fame vera. Il reddito medio annuo dei loro titolari sembra risultare attorno ai 17.500 euro, roba da non riuscire a mettere due fettine neppure di mortadella dentro un panino giornaliero (mancando loro anche la solidarietà dei commessi, satolli invece di bresaola Valtellina DOP, grazie a redditi ben superiori a quelli dei rispettivi titolari). Molte categorie di commercianti «rientrano tra gli incapienti (sotto la soglia degli 8.000 euro): si tratta dei corniciai, titolari di mercerie, rivenditori di auto – che hanno dichiarato in media un reddito d’impresa di 6.100 euro- titolari di negozi di abbigliamento e di strumenti musicali, artigiani della ceramica» (“la Repubblica, 30 maggio u.s., p. 29). Se leggesse il ragazzo di colore sostante ai supermercati, mezzo panino/mortadella, ammesso che fosse riuscito a farlo su, se lo toglierebbe volentieri di bocca per loro. Fede ce l’hanno finalmente tolto dai piedi, il povero Speranza ha dovuto dimettersi, ma… la Carità ci vuole ancora!
Dalla stessa fonte: «va meglio ai dipendenti della pubblica amministrazione, che guadagnano in media 22.400 euro […]. L’82,6 % dell’Irpef arriva dai lavoratori dipendenti e dai pensionati, e appena un 5,9 per cento corrisponde a redditi d’impresa e di lavoro autonomo».
Scantoniamo a occhi bassi davanti alle vetrine impassibili, rosi dai rimorsi cagionati dal’ammontare dello stipenduccio o della pensioncina, che pure ci scagliano ben al di sopra della media dei dipendenti.
Ricchi senza saperlo -o averlo mai sospettato- e però tormentati dal dubbio: «Ma il commercialista come fanno a pagarselo?».