di Bruno Soro
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“Pensava: «Vedrò i turchi! Vedrò i turchi!» Nulla piace agli uomini quanto avere dei nemici e poi vedere se son proprio come ci si immagina”.
Italo Calvino, Il visconte dimezzato, 1951
Avendo iniziato a frequentare l’Ateneo genovese da studente nell’autunno del 1964, e ad eccezione di un breve periodo nella prima metà degli anni ’80, ho vissuto gli ultimi cinquant’anni da pendolare su Genova, prima da Novi Ligure e poi da Alessandria. Viaggiando sui treni si colgono bene gli umori della gente, ed è così che avevo pronosticato la sconfitta della Giunta regionale piemontese guidata da Mercedes Bresso nelle elezioni del 2010, e non sono certo rimasto sorpreso dalla sconfitta del centrosinistra alle elezioni regionali liguri del 31 maggio scorso. Nonostante fosse ben nota ai pendolari l’oggettiva debolezza del candidato del centrodestra (ahimè, Novi Ligure resterà in Piemonte a dispetto della gaffe mediatica del nuovo Presidente del Consiglio Regionale e nonostante i novesi si sentano di appartenere più alla cultura ligure che a quella piemontese).
Sui treni, specialmente la mattina, dopo aver letto il “Buongiorno” di Massimo Gramellini su La Stampa e commentato le notizie sui principali quotidiani, la gente (termine che include i pendolari ma anche i viaggiatori occasionali) rivela i suoi più reconditi sentimenti: disaffezione dalla politica, disamore nei confronti del Presidente del Consiglio, rassegnazione per la situazione economica della Liguria e in generale per il progressivo peggioramento del servizio di trasporto ferroviario.
Il declino economico della Liguria è iniziato nei primi anni settanta, in seguito alle ristrutturazioni attuate dalle grandi imprese a partecipazione statale, provocate dalla crisi internazionale che ha colpito in quegli anni i settori della cantieristica, della chimica di base e della siderurgia, settori dai quali dipendeva il 70% dell’economia di questa regione. Dagli inizi del nuovo secolo sembrava quasi essersi avviata un’inversione di tendenza, compromessa ed arrestata dalla crisi economica dell’Italia (una crisi nella crisi, che data dai primi anni ’80, aggravata da quella in atto ormai da più di sette anni). Basti solo questo riferimento: nel 1970 la Liguria figurava in testa alla graduatoria delle regioni italiane in base al reddito pro capite e dal 1995 occupa stabilmente l’undicesima posizione (una in meno rispetto a quella del 1950), essendo stata nel frattempo superata, nell’ordine, dalle regioni Bolzano, Valle d’Aosta, Lombardia, Emilia Romagna, Trento, Veneto, Lazio, Friuli-Venezia Giulia, Toscana e Piemonte. Il reddito pro capite della Liguria, la cui economia si regge principalmente sui trasferimenti pensionistici, sulla sanità, sugli stipendi dei pubblici dipendenti (comune, provincia, regione e università) e su una concentrazione settoriale e dimensionale delle piccole e medie imprese, è precipitato ad un livello inferiore a quello delle regioni del Centro-Italia (prossimo nel 2012 ai 28 mila euro), identico, quest’ultimo, a quello piemontese. Coloro che auspicano un improbabile accorpamento di queste due regioni nella macro-area di «Limonte» sottovalutano il fatto che l’unione di due zoppi non fa un corridore sano.
Ora, dal momento del suo insediamento, il «Governo del fare» ha preso provvedimenti (taluni in continuità con quelli precedenti) che hanno penalizzato pesantemente i dipendenti pubblici e i pensionati (a tal punto che persino il ligure Crozza ha ironizzato in una recente apparizione pre-elettorale chiedendosi: “ma che cosa hanno mai fatto a Renzi i pensionati?”); ha diviso il suo partito, umiliando la componente interna a lui avversa; ha dileggiato, rendendoseli nemici, tutti i sindacati (che in Liguria dai tempi del governo Tambroni hanno un certo seguito); si è inimicato il mondo della scuola; ha imposto una legge elettorale di iniziativa governativa a colpi di fiducia; non è intervenuto ad annullare le primarie del suo partito in questa regione, inquinate “dal voto amico”.
Ci sarebbe da chiedersi, parafrasando Crozza, “ma che cosa hanno mai fatto i liguri a Renzi?” Il minimo che potesse capitare alle ultime elezioni era che una parte degli oppositori interni al suo partito votasse per il candidato della minoranza, e che una parte significativa di coloro (simpatizzanti?) che nelle precedenti elezioni europee avevano votato per il PD (che di elezione in elezione sono sempre meno) non andassero a votare, inviando in tal modo un segnale netto di dissenso al Segretario di quel partito, pro tempore anche Presidente del Consiglio.
E’ di questo che si chiacchierava al mattino sui treni dei pendolari, e l’esito delle elezioni appariva a molti di loro (a molti di noi) decisamente scontato. Da chi credeva di prendere i voti la candidata del PD? Dagli extracomunitari che hanno votato alle primarie? Nonostante l’invasione della Liguria, sono ancora troppo pochi e molti di loro non hanno ancora il diritto di voto. E il bello deve ancora venire.
A me, ma evidentemente sono un caso isolato, la situazione di questa regione ha richiamato alla mente un memorabile passo di Italo Calvino (guarda caso ligure pure lui, essendo cresciuto a Sanremo). Scrive Calvino nel racconto citato nell’epigramma: ““I medici: tutti contenti. – Uh, che bel caso! – Se non moriva nel frattempo, potevano provare anche a salvarlo. E gli si misero d’attorno, mentre i poveri soldati con una freccia in un braccio morivano di setticemia. Cucirono, applicarono, impastarono: chi lo sa cosa fecero. Fatto sta che l’indomani mio zio aperse l’unico occhio, la mezza bocca, dilatò la narice e respirò. La forte fibra dei Terralba aveva resistito. Adesso era vivo e dimezzato.”