Il primo che ha studiato [Controvento]

Laureatidi Ettore Grassano

Non so quanti di voi, nei giorni scorsi, siano stati colpiti da un dato contenuto nell’articolo-resoconto del rapporto AlmaLaurea di quest’anno, presentato in Bicocca a Milano.

Il dato è questo: il 78% dei laureati dell’Università del Piemonte Orientale (la nostra quindi, con le sue tre sedi di Alessandria, Novara e Vercelli) è ancor oggi ‘di prima generazione’, ossia quella è la prima laurea che entra in famiglia.

Considerando che dai tempi del gucciniano ‘il primo che ha studiato’ (d’obbligo riascoltare uno dei capolavori ‘incazzosi’ del Maestrone, prima del suo lungo crepuscolo creativo)

sono passati quarant’anni, ossia letteralmente una vita e diverse generazioni, non si può far finta di non vedere come questo Paese sia stato nel frattempo incapace di investire in istruzione e formazione, per non parlare naturalmente della ricerca.

Non solo: gli addetti ai lavori del comparto scuola e università pubblica (ma anche diversi genitori che conosciamo, con figli in età di studi) sottolineano in maniera pressochè unanime che l’abbandono e lo sfacelo sono ormai palpabili ovunque. Non entriamo qui nel merito di quale sia il modello risolutivo, e quale la ricetta per ripartire: è tema questo oggetto di riflessioni, e scontri, tra insegnanti avviliti e bistrattati, e politici tanto inadeguati quanto ‘caciaroni’ e con la bacchetta magica in mano.

Facciamo invece un’altra constatazione. Per una serie di ragioni legate certo anche alla crisi economica, ma soprattutto alla percezione che gli adulti di oggi hanno del sistema scolastico ed educativo, si sta diffondendo tra i ceti meno abbienti la convinzione che studiare non serve a nulla, è solo una perdita tempo, e non ti aiuta a trovare lavoro, e a guadagnare di più. Il ‘pezzo di carta’ non sarebbe più insomma uno strumento per migliorare, un investimento sul futuro.
Poco importa che non sia vero, dati alla mano: questa è la percezione che tanti hanno. E poichè la motivazione dell’ascesa sociale ha sempre indubbiamente pesato di più di quella, a noi particolarmente cara, dello studio come strumento di acquisizione di dignità, i giochi rischiano di essere fatti.

Ossia c’è davvero la possibilità che gli italiani siano sempre più indotti a scegliere, per i loro figli, percorsi scolasticamente poco ambiziosi, “che tanto è lo stesso”. Ma sarebbe gravissimo, perchè consoliderebbe il modello di un Paese strutturato in caste (la versione italica delle classi marxiane), immobile, anti meritocratico e destinato ad inabissarsi sempre più. Ben venga quindi il ruolo di atenei di provincia (ma per nulla provinciali: lo dicono tanti indicatori di dettaglio) come il nostro. Con l’auspicio di poter constatare, tra vent’anni, una crescita esponenziale del numero di laureati, e non il contrario. Appuntamento al 2035!