«Credo alle sedute spiritiche, non credo di essere il solo, e mi sembra che in quel periodo fu chiamato un rabdomante per cercare la base dove era tenuto sequestrato Aldo Moro, se non vado errato: quindi anche qualcun altro ci credeva»
Valerio Morucci, audizione presso la Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, 18 giugno 1997
Non ho ancora letto il libro-intervista di Romano Prodi, curato dal giornalista de L’Espresso Marco Damilano, dal titolo “Missione incompiuta – Intervista su politica e democrazia“. Dalle prime recensioni, mi pare di capire che il Professore di Bologna ripercorra larghi tratti della sua esperienza politico-amministrativa, intrecciandola con le vicende, spesso amare, a volte grottesche, del nostro Paese.
Romano Prodi, per chi non lo ricordasse, è stato ministro dell’Industria, presidente dell’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale), presidente del Consiglio e presidente della Commissione europea. Un bel curriculum, non c’è che dire.
Nelle pagine del libro, sempre basandomi sulle anticipazioni dei giornali e non su una lettura diretta, si avverte però una mancanza che mi ha fatto venire qualche pensiero. Si tratta della famosa seduta spiritica svoltasi il 3 aprile 1978 nella casa di campagna dell’amico (di Prodi) ed economista Alberto Clò, un professore universitario che poi sarebbe diventato ministro dell’Industria nel 1995 con Lamberto Dini.
In quel frangente, nel quale alcuni esponenti della “upper class” bolognese avrebbero cercato di carpire agli spiriti di La Pira e don Sturzo qualche notizia sul caso Moro, venne fuori il nome “Gradoli“, o addirittura “Gradoli 96“: via e numero civico del covo romano delle Brigate Rosse in cui, durante il sequestro Moro, risiedevano addirittura Mario Moretti e Barbara Balzerani.
La ricostruzione di quegli avvenimenti, fatta dal professor Prodi in occasione della sua audizione davanti alla Commissione Moro del 10 giugno 1981, fu alquanto imbarazzante: «In un giorno di pioggia in campagna, con bambini e con le persone che penso vedrete successivamente, perché sono tutte qui, si faceva il cosiddetto “gioco del piattino” (…). Uscirono Bolsena, Viterbo e Gradoli. Naturalmente, nessuno ci ha badato; poi, in un atlante, abbiamo visto che esiste il paese di Gradoli. Abbiamo chiesto se qualcuno ne sapeva qualcosa e, visto che nessuno ne sapeva niente, ho ritenuto mio dovere, anche a costo di sembrare ridicolo, come mi sento in questo momento, di riferire la cosa». Certo, certo.
Non sono l’unico a nutrire qualche dubbio in proposito. Il sociologo Massimo Introvigne, fondatore del Cesnur (Centro Studi sulle Nuove Religioni) e ben noto studioso di spiritismo, avanzò due anni fa alcune perplessità sulla versione prodiana dei fatti. E con buone ragioni, direi.
Personalmente, mi stupisco del fatto che per 37 anni una persona della levatura di Romano Prodi abbia potuto tenersi sulla coscienza un macigno del genere, senza mai sentire il bisogno di dire tutta la verità su quella domenica piovosa e su quel maledetto piattino che aveva composto (a sua insaputa?) il nome “Gradoli“, con o senza 96.
Quest’ultimo libro, “Missione incompiuta“, avrebbe potuto essere un’occasione propizia per saldare il conto e chiarire un punto ancora oggi controverso. Invece non è successo nulla: la catarsi è rimandata a data da destinarsi. A meno che, contrariamente a quel che si dice, il libro dia delle risposte esaurienti sul tema.
Ps: non è che forse Prodi non ne ha parlato, della vera storia di Gradoli, solo perché Damilano non glielo ha chiesto? Mah…