di Pier Luigi Cavalchini
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Anche le ultime due puntate di “Scalamercalli” , trasmissione tra l’informativo, l’educativo e la “TV denuncia”, se ne sono andate ed è più che plausibile una riflessione sugli esiti, oltre che sui contenuti della proposta.
Una share che, nonostante una graduale flessione, si è sempre mantenuta – secondo Rai Tre – su buoni livelli (con quasi due milioni di ascolti) e che da sola giustifica la riproposizione dell’impresa di cui si sentiva il bisogno perché di “iene” e di “gabanelli” ne abbiamo già fatto una scorpacciata.
La chiusura migliore possibile è stata quella dell’ultima puntata (la sesta, di sabato 4 aprile 2015) che ha semplicemente ricordato quali sono le due leve possibili (forse le uniche) su cui basarsi per “scuotere le coscienze” , come Luca Mercalli ha ripetuto innumerevoli volte. Come prima “chiave”, le parole del fondatore del gruppo ambientalista nepalese “Green Soldiers”, riportate integralmente nel titolo, sicuramente utili per provare ad invertire abitudini sballate e concezioni fataliste del futuro prossimo venturo. Il secondo suggerimento ci è venuto, invece, proprio negli ultimi minuti di trasmissione, dalle citazioni in diretta del libro “Piccola Utopia Minimalista” di Luigi Zoia, in cui si prova a vedere se ci può essere un’altra via “ambientalmente e socialmente compatibile” fra liberismo capitalista e socialismo più o meno imposto. In sostanza un appello alla ragione e al “fai da te”, al “raccogli quel che puoi raccogliere” con amici vecchie nuovi perché il mondo “si pulisce” partendo dal tuo ambito particolare.
A questa conclusione netta, forse scontata nelle parole ma ben difficile da realizzare nei fatti, si è giunti dopo 110 minuti del quinto ( e altrettanti del sesto) partendo da uno degli studi basilari dell’Ecologia: la componente di alterazione generale provocata dalla deforestazione che, per inciso, il dottor Mercalli ci ricorda pari – anche nel 2014 – all’area di due Stati equivalenti al Portogallo. Tutto è iniziato circa sessant’anni fa, secondo Elisabeth Colbert editorialista scientifica del NewYorker e continua a causare danni su tutto il pianeta. Abbiamo perso quasi metà dell’antica copertura arborea offerta dalle foreste pluviali pre industriali, con una compromissione della biodiversità (cioè di uno di quegli indici che fotografano la buona salute dell’ecosistema) in certe aree della Terra pari al 50 per cento e, comunque, con alterazioni che a noi paiono minime ma che vanno considerate su tempi lunghi… Rimanendo sull’argomento, dopo una rapida analisi dello stato di salute delle mangrovie del Bangla Desh (indovinate un po’…”pessimo”), mette sul piatto della bilancia un numero da paura: utilizziamo, dopo aver duramente disboscato, quasi il quaranta per cento della superficie terrestre per produrre cibo a base vegetale e per la zootecnia, cioè per alimentare, far crescere e poi abbattere 65 miliardi di animali destinati all’alimentazione, ogni anno. Dura, e non poteva essere diversamente, anche la posizione del metereologo Mercalli sull’utilizzo di terreni per la produzione di bio-combustibili: il “landgrapping”, così viene definita questa sottrazione, deve essere ben valutata sotto l’unico e fondamentale discrimine dei costi complessivi a fronte dei benefici reali. Per esempio, in Mozambico, come un po’ in tutta l’Africa, le cose vanno tutt’altro che bene, con decine di chilometri quadrati coltivati intensivamente con un solo tipo di banana o di caffe’, un uso libero e smodato di pesticidi / additivi vari, oltre ad uno sfruttamento della manodopera che sfiora lo schiavismo: per bocca di una giovane di etnia swahili del Mozambico del Nord viene fuori che i “possessori” delle haciendas la pagano la miseria di 77 euro per mese (con un impegno giornaliero su sei giorni settimanali e nove ore in media). Tra l’altro in questo particolare momento della quinta puntata si anticipa ciò che verrà ripreso al termine delle puntate. Un giovane tecnico italiano (potremmo definirlo uno dei tanti cervelli in fuga) presso lo IIED di Glasgow ci conferma che “si può uscire dalla situazione di sfruttamento di terreni, risorse e persone solo appoggiandosi a piccole proprietà di diretta conduzione locale, condotte da nuclei limitati e ben amalgamati, inseriti in un programma generale comprendente incentivi, modernizzazione delle tecniche e sistemi di confezionamento e trasporto adeguati”. Praticamente la situazione in cui si trovava – a suo modo bene – nel periodo pre coloniale. Tra l’altro, come argomento di passaggio alla puntata seguente, si cominciano a vedere i disastri provocati dalla troppa o dalla pochissima acqua, soprattutto per l’incapacità dell’uomo a porsi in una posizione “resiliente” con conseguente adattamento alle nuove necessità o, per lo meno, previdente informando per tenpo le popolazioni in caso di rischio.
Con l’ultima puntata ci troviamo subito in mezzo al Gran Canyon dell’Arizona, con il fiume Colorado che a malapena si riesce a scorgere, vista la drammatica siccità di cui è vittima da una decina d’anni tutto il sud-ovest degli Stati Uniti. In questo caso l’attenzione è posta in modo particolare al “bene acqua” alla sua fondamentale funzione a livello planetario e, per quanto riguarda la componente umana, alla sua funzione basilare nel ciclo della vita. Anche qui i numeri sono impietosi con diagrammi immancabilmente tendenti verso il basso come grado di potabilità delle acque, come disponibilità per l’agricoltura o per il comparto alimentare in genere. Un dramma che parte dallo squilibrio fra un novantasette per cento di acqua salata (i mari) a fronte di un residuale tre per cento di acqua dolce (di cui ben il 70 % racchiusa nei ghiacciai perenni). E trattando delle acque, in particolare discutendo dell’uso/abuso di acque confezionate in bottiglie di plastica e commercializzate a milioni di esemplari al giorno, si arriva alla regina di tutte le questioni: la possibilità di intervenire sui rifiuti – tra cui la plastica delle bottiglie – in modo originale, ambientalmente compatibile e, incredibilmente, conveniente per il cittadino.
Per l’argomento specifico ci si sposta nella “bassa trevigiana” dove, senza particolari problemi, riescono a raggiungere una raccolta differenziata pari all’ottanta per cento delle varie tipologie prodotte, a fronte delle prescrizioni di legge che si fermano al 65% del Ministro Edo Ronchi. Un codice a barre ben inserito sui cassonetti (tutti, indistintamente, a prescindere dalla tipologia di selezione) con la possibilità di vedere riconosciuto il proprio lavoro di “selezionatori familiari” all’origine, con consistenti risparmi in bolletta. Una rete di distribuzione e di intervento sulla “materia seconda”, cioè quanto viene raccolto dalla differenziata e che sta per essere recuperato, fa poi il resto, portando l’intera provincia di Treviso al vertice della classifica dei “più virtuosi”. Alla fine resta ciò che non è recuperabile (ora, dato che – correttamente – si fa riferimento agli studi riguardanti la concezione stessa delle merci che dovrebbero avere come “motivo di preferenza” quello di essere completamente recuperabili o biodegradabili a fine utilizzo) o che è “materia speciale”. Fra questi, evidentemente, tutti gli scarti delle lavorazioni chimiche e metallurgiche più inquinanti come pure le scorie nucleari, di origine ospedaliera o di ciò che rimane del breve periodo nucleare italiano. Elementi questi ultimi di difficilissimo trattamento che dovrebbe obbligarci, come comunità umana, ad esperire altre forme di costruzione o di produzione energetica, fatto qui da noi in Italia (finalmente una cosa buona) e come stanno cercando di fare un po’ in tutto il mondo. Sempre sulle “eterne questioni” legate al ciclo dei rifiuti c’è pure il tempo di ricordare, con tanto di citazioni di impegni governativi, il progressivo sganciamento dai procedimenti di incenerimento dei rifiuti da parte di Belgio e Danimarca, due tra i Paesi che più hanno cercato di “termovalorizzare” le materie di scarto. Sui numeri, e sui “ritardi” italiani c’è poco da aggiungere a quanto già si sapeva. Abbiamo un “peso specifico” per famiglia – riguardo alle varie tipologie di rifiuto – di 550 kg annui pro capite e di 1700 ca. kg per nucleo familiare, uno dei più alti a livello mondiale…Tanto per cambiare. Abbiamo più del settanta per cento dei comuni al di sotto della soglia del 65%, alcuni addirittura sotto i trenta…
Ma, come scritto in apertura, serve a poco “denunciare” se poi non seguono indicazioni precise, esempi concreti, dati certi su cui far ragionare. Potrebbero servire per queste campagne di sensibilizzazione, oltre che esperti di settore, investimenti importanti ma, ripeto, solo se le questioni vengono poste nel loro giusto modo. Non è tanto questione di iniziare da piccoli o continuare a bombardare con spot, alla lunga stancanti, meglio altri sistemi. E qui proprio “gli esempi concreti valgono più di mille parole”, come diceva il giovane nepalese stufo di vedere il fiume e tutto il territorio vicino a Katmandu completamente ricoperto di cartacce, buste di plastica, contenitori di ogni tipo ecc. ecc. Si è rimboccato le maniche, ha iniziato ò con altri – a dare il buon esempio, è riuscito a farsi sentire da chi amministra la città (e più in generale il suo Paese), in una parola, ha creduto nel “cambiamento”. Qualcosa a cui, comunque, non potremo sottrarci e con cui dovremo fare sempre i conti.