di Bruno Soro
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“Sul lungo periodo, il fattore veramente propulsivo e in grado di determinare processi di eguaglianza delle condizioni, è la diffusione delle conoscenze e delle competenze.”
T. Piketty, “Il capitale nel XXI secolo”, Bompiani, Milano 2014
Un interessante servizio di Federico Fubini (“Il laureato emigrante, quel capitale umano costato 23 miliardi che l’Italia regala all’estero”, la Repubblica, lunedì 23 marzo 2015) ha sollevato una questione nota da tempo ai cultori dell’Economia dello sviluppo. Una questione spesso ignorata quando vengono trattati i temi della disoccupazione giovanile e più in generale del contributo che una particolare forma di capitale, il «capitale umano», apporta alla crescita di una economia.
Dal 2008 al 2014, scrive Fubini, “è emigrato all’estero un gruppo di italiani la cui istruzione nel complesso è costata allo Stato 23 miliardi di euro”. Una cifra considerevole che i contribuenti italiani hanno regalato ad altre economie, egli sottolinea, se si considera che la manovra finanziaria varata nei mesi scorsi dal Governo Renzi per il 2014-15 ammonta a 36 miliardi. E la cosa che più colpisce è che questo “regalo” non è andato a favore, che so del Mozambico o di qualche altro paese eufemisticamente considerato “in via di sviluppo”, ma a vantaggio di economie concorrenti con la nostra, non solo come quelle evolute della Gran Bretagna, della Germania, degli Stati Uniti e della Svizzera, ma persino di economie emergenti come il Brasile.
L’emigrante laureato, infatti, è un trasferimento di risorse economiche (il «capitale umano» è il cumulo degli investimenti in conoscenza nel corso del tempo), la cui formazione è avvenuta in gran parte all’interno del nostro paese, prima nel sistema scolastico e poi in quello universitario, a tutto vantaggio del sistema economico che ne utilizza l’abilità e la competenza. Le cronache nostrane riportano spesso notizie di ricercatori che prestano servizio in eccellenti centri di ricerca stranieri (basta scorrere le pagine dei servizi settimanali di TuttoScienze o di riviste mensili specializzate come Le Scienze), mentre minore attenzione è dedicata al fenomeno dell’emigrante laureato, ancorché non eccellente, il quale, per trovare una opportunità di lavoro, non importa se coerente con il capitale umano che ha in dotazione oppure no, è costretto a cercarla all’estero. Le cifre sono impressionanti: “in base all’anagrafe italiana – scrive Fubini – (…) dal 2008 al 2013 c’è stato un deflusso netto di 150 mila persone”, mentre nel 2013 avrebbero chiesto il codice fiscale britannico più di 44 mila italiani e solo nei primi sei mesi del 2014 gli italiani registrati in Germania ammonterebbero a oltre 13 mila. Stando alle cifre dell’ISTAT il 24% degli italiani traferitisi all’estero ha riguardato cittadini con laurea.
Dunque, l’Italia, la cui economia è stagnante dall’inizio del nuovo secolo, negli anni della crisi avrebbe donato risorse pari a circa due terzi dell’ultima manovra finanziaria ad altre economie contribuendo in tal modo alla loro crescita. Ma che cos’è esattamente il capitale umano e a quanto ammonta il contributo che questa forma di capitale apporta alla crescita di una economia?
Il termine «capitale» ha assunto nel corso del tempo significati alquanto diversi, basti pensare ai cinque volumi de “Il capitale” di Carl Marx – definito nella pregevole Introduzione della storica edizione della Editori Riuniti del 1974 dell’economista inglese e storico del marxismo Maurice Dobb (1900-1976), “l’opera di economia politica più controversa che mai sia stata scritta” -, fino al best seller di Thomas Piketty, citato nell’epigramma, “Il capitale nel XXI secolo”, che tratta dell’evoluzione delle disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza, oggetto di una controversia internazionale sin dalla sua apparizione nell’agosto del 2013.
Nelle sue molteplici accezioni, il termine «capitale», spazia da quella di «capitale finanziario», quale “somma di danaro fruttifera”, alla conversione di quest’ultima in «capitale fisso», ovvero nel “complesso dei beni durevoli destinati alla produzione”, a quella giuridico-aziendale di «capitale sociale», inteso quale conferimento dei soci all’atto della costituzione di una società, all’accezione economico-sociologica di quest’ultima, inteso come l’insieme delle regole che sottendono allo stato di fiducia in una istituzione o in un sistema economico, a quella, infine, di «capitale umano». Ad essere sinceri, tuttavia, le controversie più accese, quanto meno in economia, attengono non tanto al significato di capitale, quanto piuttosto alle modalità con le quali questo è suscettibile di essere misurato. Nota infatti l’unità di misura monetaria, poniamo l’euro, il capitale finanziario e quello economico-giuridico-aziendale non presentano problemi di misurazione. Per contro, il capitale fisico, inteso come somma dei beni strumentali che lo compongono, il capitale sociale, come sinonimo di fiducia, e il capitale umano presentano non pochi problemi sia di definizione che di misurazione. Tant’è vero, che occorrerà attendere i lavori degli economisti della cosiddetta “Scuola di Chicago” Jacob Mincer (1922-2006), e dei due Premi Nobel Theodore Schultz (1902-1998) e Gary Becker (1930-2014), quest’ultimo proprio per la sua formulazione del capitale umano, per la misurazione e l’inclusione di questo concetto nel contesto delle teorie della crescita economica. In quest’ottica, il capitale umano sintetizza tutte quelle caratteristiche del lavoratore, che vanno dalla capacità innata, all’istruzione e all’esperienza professionale, che influiscono sulla produttività del lavoro e, conseguentemente, sulla crescita dell’economia.
Più recentemente, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), in collaborazione con un gruppo di lavoro che ha visto impegnati alcuni importanti Centri studi e istituzioni italiane , ha promosso nel 2009 il progetto “Human Capital”, avente lo scopo di mettere a punto una metodologia di misurazione del capitale umano “a partire da una stima della sua capacità di generare reddito per gli individui che lo posseggono” (ISTAT, 2014) in grado di consentire l’effettuazione di comparazioni internazionali. Vale la pena di sottolineare come, analogamente a quanto accade per il capitale fisico, anche il capitale umano sia soggetto al fenomeno dell’obsolescenza (una sorta di perdita di funzionalità), dovuto agli effetti del progresso tecnico, della globalizzazione e dell’invecchiamento, per tenere conto dei quali sono stati proposti diversi metodi, tra i quali il cosiddetto “approccio integrato”, che consente di tenere conto di tali effetti nei vari metodi di stima.
Per quanto riguarda l’Italia, i risultati di un recente progetto congiunto ISTAT-ISFOL sui metodi di misurazione del capitale umano sono stati presentati nel corso di un Seminario internazionale tenutosi a Roma nel novembre del 2010, a seguito del quale la recente pubblicazione dell’ISTAT ha consentito “di mettere per la prima volta a disposizione del pubblico informazioni sperimentali circa il valore monetario attribuibile allo stock del capitale umano, che costituisce una delle principali risorse economiche del Paese assieme al capitale fisico e a quello naturale”. Dalle conclusioni di questo studio si apprende che le “stime relative alle sole attività di mercato (riferite alla popolazione in età 15-64 anni) per il 2008 mostrano che lo stock di capitale umano è pari a circa 13.475 miliardi di euro, cioè un valore quasi 2,5 volte superiore al capitale fisico netto del nostro Paese e oltre otto volte superiore al Pil. In termini pro capite la stima indica che il capitale umano di ciascun italiano equivarrebbe a circa 342 mila euro”.
“Ogni volta – scrive Fubini – che una di queste persone lascia l’Italia, quell’investimento in sapere se ne va con lui o con lei”.
Purtroppo le stime riportate nell’articolo citato sulla “donazione” di capitale umano tra il 2008 e il 2014 alle altre economie sono alquanto sottostimate: stando infatti ai dati dell’ISTAT sul numero degli “emigrati laureati” e sulla dotazione di capitale umano pro capite, l’entità della “donazione” alle altre economie ammonterebbe a circa una volta e mezza rispetto a quanto ipotizzato da Fubini (51,3 miliardi contro 36). Che sia anche per questo motivo che l’economia italiana, che non sa sfruttare i suoi laureati, da oltre un decennio cresce più lentamente rispetto a tutti i 28 paesi dell’Unione Europea? Ci sarebbe abbondante materia su cui discutere, al di là delle molte parole spese tra le principali forze politiche italiane sulle varie ipotesi di scissioni.