Nella sua protervia da ex Campione d’Europa, l’allora DS grigio se l’era proprio andata a cercare e non fu difficile dirgli: “Avrai anche vinto la Coppa dei Campioni ma ora sei qui che lavori con me…che sono stato in serie Z coi Cammelli di Spinetta!!!”.
Il vecchio campione viveva in un mondo tutto suo e pensava di rivoltare le regole a suo piacimento. Quella mattina tirai fuori tutto il mio orgoglio e gli spiegai che il calcio è fatto di empatie ed emozioni che lui non poteva certo conoscere. Ma l’uomo arrivato alla corte Grigia, su intuizione di Gianni Bianchi, non c’entra niente con quello che sto per raccontarvi: la piccola, grande storia di una squadra che si divertì a giocare al calcio tra gli anni 80 e 90 nel vivacissimo mondo amatoriale alessandrino, in cui se ne vedevano di tutti i colori, maglie comprese. Se scorro i ricordi di quei fine settimana (si giocava al sabato pomeriggio o alla domenica) mi vengono in mente Ritmo diesel trasformate in magazzini e spogliatoi, litigi furiosi, acqua bevuta a collo nelle bottiglie di vetro e palloni che finivano sovente in mezzo al granoturco.
Un mondo a parte, di cui è impossibile aver perso la memoria, con le rivalità accese, gli occhi alzati al cielo all’arrivo dell’arbitro (“con questo perdiamo…”), i campi gelati, il fumo della megastufa del campo di Montecastello dove giocava il River Eureka. Ho perso le tracce di quel mondo ma non il ricordo fatto di persone che non ci sono più o di amicizie indelebili, anche con gli avversari, di sapori unici legati, forse, all’età e, di sicuro, all’idea di una comunità trasversale, fatta di professioni e mestieri diversi, sensibilità e passioni che poi finivano tutte sotto la stessa doccia.
Gli episodi sono centinaia, confusi in un ricordo che ormai ha un certo alone di mito. Giocatori che s’incontravano ancora sul campo ma che, qualche anno prima, vestiti di Grigio, avevano fatto impazzire con le loro prodezze te e qualcuno ancora più vecchio di te. Tinazzi che giocava con le Superga alte nere e blu e, a 50 anni, prendeva ancora la traversa da metà campo o Danny Dalle Vedove che ti guardava e tu abbassavi lo sguardo o Paolino Scarrone, più tirato di quando giocava con Prati e Schellinger. Fisici integri o quasi, a dominare un’orda di gente che giocava e parlava e s’insultava (…e tutto contemporaneamente!!!) e sembrava di essere a Zelig ma i punti erano punti e ogni partita una guerra. E poi, flash fantozziani come l’espulsione che matura per un’accusa di alitosi all’arbitro: “Venga qui, numero quattro! mi stia vicino quando le parlo…” E il malcapitato: “Come faccio, arbitro (o, forse, albitro…), ha un fiato che sembra le fogne di Calcutta!!!”.
Sfide epiche come Anfossi e Necchese, con l’arbitro che aveva già mal di testa prima del fischio d’inizio, e poi rivalità roventi tra squadre di paese e partite che duravano un’annata e l’anno dopo ancora a pensare ancora a quel fuorigioco che non c’era o a quel giocatore che “l’han fatto giocare sotto falso nome”.
Decine di partite nei fine settimana, un mondo fatto di maglie di lanetta, calzoncini quasi ascellari e scarpe rigorosamente nere. La Polisportiva Cammelli giocava a Spinetta, campo di Via Quartieruzzi. Allenamento il giovedì sera, ma era un optional, con la doccia che finiva a mezzanotte e poi via in birreria. Gente che giocava per divertirsi ma teneva il muso se poi stava in panchina. Olio canforato d’inverno e sigarette fumate nell’intervallo, con buona pace del nostro portiere che allora studiava Medicina e si sarebbe poi specializzato in Pneumologia. Per non parlare delle facce di certe domeniche mattina, molti reduci direttamente dalla discoteca, una brioche alle sette e poi due ore di sonno direttamente in macchina, davanti al cancello del campo. Nemici storici e squadre imbattibili: la Canottieri di allora, affascinante per gli spogliatoi e le donne che sbirciavi, andando a cambiarti. Un anno, nell’ultima di campionato, proprio un pareggio dei Cammeli, contro una loro concorrente, l’Oviglio, regalò a Ospe e ai suoi la vittoria finale. E il giorno dopo, Sandro (di solito espansivo come un coguaro) si sdebitò con me, con un grazie, un sorriso…e un caffè.
E poi le squadre di Romano Anfossi, fortissime, cattive, imbattibili, piene di gente brava che giocava con l’entusiasmo di un ragazzino e lo spirito del professionista. Gente di tutte le età, tra brocchi veri e talenti inespressi, generazioni di ragazzi che comunque se la sono spassata anche con poco. Nessuna nostalgia, se non quella di un tempo che torna in più. Capita di rivedersi, anche a distanza di vent’anni: le barbe grigie, l’addome non proprio piatto, lo sguardo un po’ provato. Chi è stato in quel mondo, in cui le partite non finivano necessariamente con una stretta di mano, porta con sè il senso di un’esperienza mitica. L’aria del calcio che conta dovrebbe avere un po’ più il profumo di quella serie Z.